Pippen, il secondo più forte


Simone Basso
Indiscreto - 25 agosto 2010

A volte ritornano, malgrado tutto, anche se l’America è un luogo che tollera a malapena i supereroi, adorando invece le superstar. Però stavolta il soggetto in questione, trovato rifugio nella Hall of Fame di Springfield, potrebbe essersi messo in salvo per l’eternità. Ready or not, Here I come… Apologia agnostica di Scottie Pippen, il Larry Graham della pallacanestro, un tentativo gioioso di approfondire lo sguardo su un periodo storico soffocato dalle frasi fatte e dagli highlights di Sportscenter. 

Scott nacque ad Hamburg, Arkansas, come ultimo di una nidiata di dodici pargoli. Figlio di una miseria nerissima, anzi afroamericana, che si accentuò con l’invalidità del padre, costretto - da un infarto - alla sedia a rotelle per il resto dei suoi dì. Lo stesso destino crudele che colpì dopo un incidente anche il fratello Ronnie. Scordatevi i camp organizzati dall’Adidas o dalla Nike, le posse dei parenti e degli amici che sostengono la futura prima scelta di Sternville, al liceo locale il nostro fece il magazziniere della squadra di football. Uno e settantotto scheletrico, con la prospettiva di essere inserito (sempre come guardarobiere) a Central Arkansas, college-lilliput semidimenticato dagli dèi.

Durante il primo anno universitario però accadde l’incredibile. Don Dyer, l’allenatore in quel di Conway, assistette sbigottito alla crescita ipertrofica (quindici centimetri in pochi mesi...) e tecnica del cosiddetto playmaker di riserva; il livello di competizione mediocre, la NAIA, oscurò comunque a lungo le doti in divenire del giovincello. Ma le voci delle gesta di quel diamante grezzo arrivarono fino a Marty Blake, storico caposcouting della NBA, che (dopo averlo visionato dal vivo) si affrettò a spargere la notizia. Alla favola di un Magic Johnson spuntato nel bel mezzo del nulla credette solamente Jerry Krause, giemme dei Bulls, che spedì in avanscoperta l’assistente Billy McKinney. L’aiuto di Crumbs confermò tutte le leggende metropolitane: la palestra di Central Arkansas era poco più che un capannone, la competizione una cicloturistica e il bimbo una promessa certa. 

L’anonimato di Pip finì definitivamente al Portsmouth Invitational Tournament e all’Honolulu Classic; il 2 e 02, pronto per una scelta nella top ten, azzerò la salivazione di molti dirigenti. Per Krause ci fu un fattore che contò almeno quanto l’atletismo irreale, i cinque ruoli cinque giocati e l’affidabilità caratteriale: quelle braccia incredibili, lunghissime, che sono il vero passepartout totemico di un baller completo. Per assicurarselo il buon Jerry convinse Seattle a uno scambio di scelte; la prima pick di Chicago, l’ottava, ovvero il “riminese” Olden Polynice, fu passato ai Supersonics per il quinto assoluto, cioè l’all-around dell’Arkansas. A posteriori un furto clamoroso che, accoppiato anche all’arrivo di Horace Grant, rappresentò uno dei migliori draft di sempre per una franchigia. E così, accompagnato dal gemello diverso Orazio, stesse radici rurali del profondo sud, entrò dalla porta principale dell’empireo con il compito meno semplice di tutti: crescere all’ombra del baobab Jordan, il Fregoli che portava in giro per gli States lo spettacolo solista più elettrizzante del globo.

Lo Scottie della prima fase NBA sembrò un tweener in equilibrio instabile tra santità e perdizione; i bagliori di grandezza futura oscurati da un’inconsistenza agonistica inquietante e dolorosa. Ci parve bello e inutile come un Larry Kenon qualsiasi, preso a bastonate dalla pressione di dover convivere con le aspettative del ventitré e di un’organizzazione intera. Le botte, quelle vere, le presero i Tori dai Bad Boys durante tre edizioni consecutive dei playoff; gara7 del 1990 fu anche una Caporetto personale dello swingman rossonero: 42 minuti, uno su dieci su azione e l’uscita prematura dalla contesa per un’emicrania insopportabile. Inutile ricordare che la stampa specializzata lo massacrò, ritenendo l’indisposizione una scusa puerile; Pip invece si spaventò ricordando i sintomi pre-disgrazia di papà Preston, che morì proprio durante quelle settimane… 

Eppure, proprio in quel periodo durissimo, cominciarono a germinare i semi dei Bulls dinastici: gli ultimi mesi di regular season del 1991 consegnarono ai posteri meno distratti una fotografia perfetta della dittatura prossima. MJ fu convinto da Phil Jackson e dall’evidenza della trasformazione pippeniana; la farfalla che spuntò definitivamente dalla crisalide permise ad Air, vivaddio, la condivisione della gonfia con un bipede che spartisse doti tecniche e atletiche simili alle sue. Le due sole sconfitte nei playoffs certificarono la marcia trionfale dei Jordaniers straripanti: simbologie del nuovo potere furono l’umiliante sweep a domicilio degli odiati Pistons e il passaggio di consegne con la squadra degli Ottanta, i Lacustri di Magic, nella Finalissima. Come sentenziò Mister Pressing, al secolo Aldo Giordani: “Posso sbagliare, ma – per me – è più merito di Scottie Pippen che di Jordan. Il cannonissimo Air era già immenso anche in passato. Quello che in questa stagione è veramente migliorato, è Scottie Pippen…”.

A Chicago si resero conto di avere pescato, oltre al Migliore, anche il secondo più bravo nel giochino; il dominio dell’annata 1992 confermò l’impressione a dispetto del gossip sullo spogliatoio problematico. Convivere con la tirannide jordaniana divenne una missione impossibile: Coach Zen fece il pompiere in una situazione da soap opera, che meriterebbe un capitolo a parte per sviscerarne le dinamiche perverse. La mania ossessiva di Michael per le scommesse, lo spirito competitivo, i suoi rapporti difficili con Grant dopo una rissa post partita. Per rendere ancora più irrespirabile l’atmosfera, Scottie firmò in fretta e furia un’estensione contrattuale che lo pose al riparo da qualsiasi spettro del passato; ma si legò quasi a vita, chiaramente sottopagato, in un’era che lo porterà ad essere (nel 1998) ben oltre la centesima posizione nella lista dei salariati della lega. Tanto per incrementare la fama paranoica, uno che faceva lo streching pre partita lontano dal cubo maxi schermo, No Tippin’ Pippen divenne una leggenda scozzese nelle mance ai camerieri e agli uscieri. Essere umano complicato e curioso il versatile do it all type, come quando chiese ai compagni un minuto di silenzio per la morte del suo gatto… 

“E’ sopravvalutato” (Mike Lupica di Espn). “E’ un bidone, l’unica cosa che è capace di fare è passare la palla a Mike” (Larry Johnson). “Il giocatore più fortunato della storia del gioco” (Al Bianchi). L’Uomo Ragno di Sternville ha sempre diviso in due la platea, persino nei momenti dei trionfi e nell’epica cavalcata 1994 dei Bulls del buen retiro jordanesco; considerata anche dal proprietario Jerry Reinsdorf e da Phil Jax l’annata singola più esaltante di quella squadra. 

Il nuovo capobanda perse il primo mese per infortunio e poi indicò, con il piccolo aiuto dei suoi amici, la strada verso la terra promessa: incredibile ma vero, quei Tori senza MJ (con Pete Myers al suo posto..) compilarono un record di 55 vittorie (due sole in meno dell’anno precedente!) e arrivarono ad un sospiro, o meglio un fischio, dallo showdown. Pip in quei mesi giocò a un livello eguagliato dal solo Hakeem, completando un processo di maturazione tecnico-tattica cominciato sull’asfalto di Pine Street, Hamburg.

Ci furono sere nelle quali contemplò l’onniscenza assoluta sul parquet, interpretando TUTTO lo scibile del basket contemporaneo; facendo le grandi e le piccile cose che portano all’unica unità di misura della partita: la vittoria. Lo fece con lo stile inconfondibile dei grandi performer afroamericani della specialità; nella Spaghetti League dei tempi d’oro ci sovviene l’incedere felino di Abdul Jeelani (aka Gary Cole), principe di Livorno sponda Libertas, dall’altra parte della pozza il riferimento non poteva essere che il divino Julius Erving, simulacro di Scottie e di tutti i bambini che, con l’arancia Wilson in mano, sognarono il paradiso in terra del gioco. Proprio come nel leggendario “Mumbo jumbo” di Ishmael Reed quelle evoluzioni aeree, la gestualità sinuosa, elegante, furono il jes grew che ci obbligò a rispettare la musicalità intrinseca, magica, del basket; Afroman col 33 sul petto, con quel ciondolìo inconfondibile, ne fu uno dei massimi propagandisti. La mano sinistra, in palleggio e in affondata, il marchio di fabbrica che lo separò dai contemporanei; l’arte dello slashing, inseparabile da un buon palleggio, arresto e tiro, ne fece una minaccia costante per le difese. 

Ma lo sciopero di 1,8 secondi nella serie contro i Knicks lo dipinse come l’ennesimo All-Star egoista; quella controversia oscurò la ferocia dello Scottie Team nella semifinale orientale. Persa alla bella, al Madison, e modificata geneticamente in gara5 quando Hue Hollins (il grigio vero asso nella manica dei rileyiani) assegnò un fallo inesistente proprio al capitano dei jacksoniani: quei due tiri dalla lunetta di Hubert Davis confermarono la fallibilità degli arbitri e, molto probabilmente, l’esistenza dei finitimi anche negli United States. Senza quell’intervento fatale, i Mikeless avrebbero disputato la quarta Finale consecutiva… 
La stagione seguente, prima del ritorno del Big Brotha numero 45, i Bulls smontarono la portaerei “regalando” il fratellino Grant alla concorrenza (Orlando); offrirono a cani e porci pure l’arte be bop del trentatré ma con risposte poco convincenti.In fin dei conti, malgrado la sedia tirata in diretta nazionale e i mal di pancia continui, il soggetto in questione era letteralmente inscambiabile: come misurare, in giocatori e scelte, i servigi del miglior giocatore della lega? 

Nell’anno del Grande Slam statistico, Pip mise in griglia playoffs un combo con Larry Krystkowiak, Bill Wennington, Luc Longley e Dickey Simpkins come lunghi. Ci furono notti da toro inferocito che regalarono spettacoli assurdi: a Natale, la nemesi newyorchese smantellò i Knicks da solo; giocò tutti i 53 minuti dell’incontro, segnando ogni punto dei suoi nel supplementare vincente. Trentasei e 16 (rimbalzi) non raccontarono lo strapotere, comprendente anche due stoppate consecutive sulle triple del possibile pareggio. Un pomeriggio, opposto alla contender occidentale Phoenix, si applicò su Sir Charles on fire e lo spense, cancellandolo dal campo; nel frattempo, per sovrammercato, mandò a referto 35 punti, 9 rimbalzi, 6 assist, 5 recuperi e 2 stoppate. 

Il purgatorio di Batman sarebbe terminato con il rientro di Superman e assunse le sembianze della leggenda: all’incipit della rumba 1996, il migliore coaching staff allenò il closer più inavvicinabile del reame, il giocatore di squadra più forte e completo della ciurma e lo specialista per antonomasia. Per la riffa scrivete i numeri 23, 33 e 91; aggiungete poi la classe dell’europeo più versatile dei Novanta (Toni Kukoc) e la collaborazione attiva dei vari Harper, Kerr, Longley. Dell’anno record ricorderemo per sempre una corrida di regular season contro Pacers stramotivati, che avrebbero vinto opposti a chiunque; ma il dinamico duo e il verme col piercing imposero la legge della loro supremazia. Ribattendo colpo su colpo, confermarono l’aurea di imbattibilità di quello squadrone cinico e bellissimo: MJ ne segnò 44, Pip 40 (28 nel secondo tempo) più 5 recuperi e 10 rimbalzi, mentre Dennis "The Menace" ne catturò altri 23. Una monarchia illuminata dalle doti difensive mostruose dell’ensamble; nella specialità decisiva, leader of the pack (The Scottie-Las) l’eterno MVP-ombra. 

Nella metà campo che conta veramente, quella che ti permette di issare le bandiere, fu la Dea Calì versione funky: uno contro uno dalle point (Magic, Mark Jackson) alle power forward (CWeb, Baker) fino alla single coverage personalizzata sullo Ewing di turno. Fu lui a popolarizzare la chasedown, ma l’albatro andò ben oltre qualche rejection circense… Difese corpo a corpo, senza arretrare, e di anticipo; a uomo ed intuendo i movimenti degli altri sul terreno e le linee di passaggio: in un universo che premia gli aggiustamenti tattici nelle serie di playoffs, il Dobermann sfoderò il wolfing out definitivo, ovvero il movimento di lettura aggressiva e golpe dell’attacco avversario. 

Trattasi della fase che annichilisce la fluidità di qualsiasi schema offensivo e non pensiamo che sia un caso se il 33 e Robert Horry siano stati i due interpreti supremi: fanno tredici anelli in due ma non ve lo racconteranno durante Nba Action. 

Un passo indietro (ma mille in avanti nel cosmo..) al Dream Team 1992 con le parole del grande Chuck Daly, l’allenatore di quel convitto di semidei: “Lo so che Michael era il meglio, ma Pippen in quella squadra era il giocatore migliore”. Ve la ricordate la sua marcatura individuale, da cineteca, su Oscar Schmidt? Quando si scrive di Barcellona e del torneo olimpico, si indugia sul significato globale di quel blockbuster dimenticando la lezione evolutiva delle partite: l’infortunio a Stockton privò gli americani dei playmaker; ma Team Usa ne approfittò per abolirne il ruolo classico, utilizzando Jordan, Drexler e soprattutto Pippen (l’epitome della point forward) come portatori di palla e creatori di gioco. The Natural, al netto degli scottiehaters, ha sempre avuto tanti ammiratori; un anno la rivista Slam chiese ai big della NBA chi avrebbero voluto essere, scegliendo riferimenti contemporanei. Una moltitudine scelse Afroman, tra gli altri Penny Hardaway, Da Glove Payton, Mitch Richmond, Chuck Barkely, l’Ammiraglio Robinson; come dichiarò Reggie Miller: “E’ l’unico in questa lega che può segnare cinque punti e dominare lo stesso una partita.” 

Il regno terminò a Salt Lake City nel 1998, in una gara6 dalle emozioni fortissime: fino all’epilogo fu una saga che spiegò la poliedricità del trentatré, che nella terza recita paralizzò gli Utah Jazz forzando quattro sfondamenti (due di Karl Malone!). All’ultimo ballo a Pip saltò la schiena, i Tori rischiarono il collasso e Jordan si confermò il Babe Ruth moderno; il destino di Patroclo rimase intrecciato con quello di Achille per sempre. Fu incredibile nell’ultimo quarto vedere la reazione di una squadra che rifiutò la sconfitta, idealizzata dallo stupefacente lavoro individuale di Rodman sul Postino.

Lo scioglimento dell’impero lo portò, dopo la serrata, nel luogo sbagliato al momento sbagliato; l’esperienza a Houston fu un fallimento totale viste le premesse e la compagnia di Olajuwon e Barkley. Poi a Portland, in una congrega di talenti a metà tra genio e follia, esibì la saggezza di Geronimo; i Blazers 2000 incrociarono lo spirito del ’77 e poi (all’improvviso) aderirono alla Legge di Murphy. Accolita comprendente il Cabaret Voltaire dell’intelligenza cestistica in almeno tre ruoli (Sabonis, Steve Smith e voi sapete chi), nonché una serie di buzzurri baciati da Dio nel corpo ma incapaci della minima disciplina tattica. Afroman, l’uomo che vedeva il gioco ovunque, alle prese con la (de) generazione cresciuta a isolamenti e pick and roll; fu quasi un successo clamoroso, anche nelle parole di coach Mike Dunleavy. “Da allenatore lo adoravo. Il collante, il professionista modello. Era quello che faceva il passaggio che portava all’assist, che deviava il pallone per un recupero e prendeva il rimbalzo per aprire il contropiede.” 

Il rendezvous con i losangeleni di Coach Zen, nella finale occidentale, fu la madre di tutte le battaglie in Sternville: i Lakers partirono col turbo e sembrarono padroni del loro destino; poi, sul 3-1 lacustre, lo scenario si modificò radicalmente. Gli oregoniani demolirono il triangolo di Tex Winter; lo Shaq più devastante di sempre fu limitato dai raddoppi scientifici, eseguiti con un timing marziano, del Re degli Intangibles. Per quasi tre partite i Lakers sventolarono bandiera bianca e il blackout della truppa di Paul Allen, sopra di quindici nella bella e a dodici minuti dall’anello, fu veramente inedito: fino all’intervallo di quella gara7, l’MVP della lega O’Neal aveva realizzato due soli canestri dal campo, terrorizzato dagli agguati del trentatre; la rimonta di LA nel quarto periodo ebbe la benzina involontaria di sette tiri sbagliati dall’ineffabile Rasheed Wallace, guru spirituale dei Jailblazers prossimi venturi. 

Nel 2001, l’arrivo del fantasma di Shawn Kemp (imbottito di coca come Sly Stone nei seventies) si sovrappose alla partenza di un Jermaine O’Neal pronto a esplodere: l’organizzazione, vogliosa di issare un banner al Rose Garden, implose seppellendo i sogni di gloria. Sul Sunset Boulevard della carriera, iperinfortunato, Pippen ci diede l’ultima dimostrazione pratica della sua grandezza. Gara5 del primo turno 2003 a Dallas, Do or Die per i Blazers con un Damon Stoudamire sugli scudi per quasi tre quarti; efficace nel suo eterno uno contro cinque ignorante. Poi, per provare a vincerla sul serio, Cheeks mise il trentatré prepensionato da mille acciacchi: senza più le gambe della pantera nera in maglia Bulls, da fermo, impartì una lezione di pallacanestro ai nove sul legno con lui. Dal post alto, utilizzando il q.i. di un Maestro geniale, l’Ornette Coleman dell’Nba spiegò per un quarto d’ora il verbo alla plebe di milionari tatuati e li portò (come il pifferaio magico) alla doppia v rituale. Fu l’ultima immagine, struggente, di uno dei più grandi vincenti del gioco, il nostro Bill Russell. 

Vi risparmiamo le storie meno divertenti del post carriera di Scottie Pippen: i soldi (tanti, troppi) persi in investimenti azzardati e un paio di esibizioni finlandesi per racimolare un pugno di dollari. Ci auguriamo che la sindrome di James Brown si fermi a queste vicende. Il senso della rievocazione, azzoppata la sua versione ultramegaok in rampa di lancio (Grant Hill), è che uno come il sei volte campione NBA (e doppio oro olimpico) non lo rivedremo mai più. 

Non è solamente la narrazione di un’epica del Sogno Americano, di un ragazzino affamato dell’Arkansas che è passato dalla Fossa delle Marianne alla sommità del Monte Everest. E’ l’opportunità migliore per comprendere le dinamiche meno banali e più importanti del gioco; il trentatré è un mistero, una contraddizione, che può svelarci le miserie del basket odierno. Perché oggi, se sembri appena promettente, a diciassette anni avrai la fila degli agenti dalla madre o dallo zio. E a diciannove firmerai un contratto a nove zeri con un paio di aziende che sistemeranno la crew per decenni: non sarà più una priorità il piede perno a posto o l’hockey pass che sventra la difesa avversaria. Nemmeno l’estate passata a migliorare il palleggio con la mano sfavorita. Avrai una corte di yesman che ti adorerà e applaudirà ad ogni schifezza combinata per migliorare le statistiche personali. E’ per quello che, la sera dell’elezione di Pip nella Casa della Gloria con Karl Malone e il fu Dennis Johnson, abbiamo visualizzato la distanza siderale che lo separa da quelli di oggi. 

Una volta Bob Cousy disse che ci sono due tipologie di giocatori, definibili dal loro sguardo appena oltrepassata la metà campo: alcuni osservano i compagni, altri solo il canestro. Hanno convinto quasi tutti, soprattutto tifosi e commentatori, che la seconda razza (bugiarda) sia l’unica verità possibile e immaginabile. Poverini.
Simone Basso 
(in esclusiva per Indiscreto)

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