CORTI: «VADO IN GIRO A VENDERE IL CICLISMO»



«Ma è difficile, costi troppo alti e poche sicurezze»

di Alessandra Giardini, TuttoBiciWeb, 28 gennaio 2018

PROFESSIONISTI | Claudio Corti se la ricorda come se fosse adesso la prima volta che vide Chris Froome. «Con la Barloworld dovevamo fare il Giro del Capo. Il secondo anno ci andai con una bella squadra. Era la tappa che arrivava a Stellenbosch, in circuito. C’erano questi quattro chilometri di salita finale, e in fondo c’erano rimasti i miei corridori e questo ragazzo pallido e magro, con la maglia bianca. Mulinava, era agile. Alla fine andai a parlare con lui, mi raccontò che viveva da solo, si era trasferito in Sudafrica per correre. Non ci volle molto a convincerlo a venire in Italia. E’ rimasto con noi due anni, ma non scrivere che sono stato io a scoprirlo o a farlo crescere. Non mi piace appropriarmi dei successi degli altri». 

Corti è fuori dal ciclismo perché aveva un bel progetto con il Team Colombia, poi tre anni fa «è cambiato il ministro dello sport, il progetto è finito, amen». Corti è uno che sa occuparsi degli altri, poco importa che sia suo figlio piccolo da andare a prendere a scuola, la politica nel suo paese o una squadra di corridori. «Mi piace dire che faccio il rappresentante, l’agente di commercio. Vado in giro a cercare di vendere il ciclismo. Presento progetti, spiego. Una volta era più facile, nelle aziende c’era un padrone e dovevi convincere lui. Adesso vai nelle multinazionali ed è già un’impresa farsi dare un appuntamento. Poi magari ti fanno parlare col due di picche e la risposta è: le faremo sapere».

Qual è il suo progetto?
«Senti, io ho bisogno di pensare in grande, il problema è che questo World Tour costa troppo. Però se vado da una multinazionale non gli propongo una Cinquecento. Non dico una Ferrari, no, ma almeno una Mercedes. Tradotto, una squadra che abbia un budget da dieci-dodici milioni almeno. Ma piano piano ho perso un po’ di entusiasmo. So di essere bravo a gestire le squadre, ma forse non sono così bravo a proporre».

Dove si ferma il progetto?
«La domanda è sempre la stessa: ma siamo sicuri di fare il Giro d’Italia? E io no, non posso assicurarglielo. Una volta, con il GS1 e il GS2 c’era meritocrazia, la buona gestione era premiata. Adesso puoi parlare di valori: l’etica, il valore dei corridori e il valore economico, che poi è quello dei corridori. Ma partire da zero è complicato, e un’azienda grossa non accetta di entrare da comparsa».

Riavremo mai una squadra italiana di vertice?
«Magari ci può riuscire qualcuno, sì. Io ho ancora due, tre porte aperte, anche all’estero. Ma non ho mai detto che ci sono finché non ho tutto firmato. E il tempo è poco: per l’estate dev’essere tutto definito perché poi le aziende chiudono. Ho ancora quattro o cinque mesi».

Le manca una squadra?
«Avrei voglia di fare le cose bene, in maniera professionale. Ma costa troppo. Quando è nato il Pro Tour, io e Zappella siamo stati subito contrari, e con noi Ferretti e la Fassa Bortolo. La globalizzazione c’è stata, però si è perso tanto in qualità e prestigio degli eventi. Mi spiego: le corse belle, come il Giro, il Tour e le classiche, sono diventate ancora più belle. Ma appena dietro è scaduto tutto. Non solo in Italia: anche in Spagna, in Francia. Magari poi leggi di una corsa in Africa e scopri che ha vinto un cicloamatore o poco più, ma anche quella è una corsa Uci. Quello che manca sono i valori medio-alti. In Italia c’era una gara bella ogni settimana. Oggi cosa rimane? Il Giro dell’Emilia, forse il Trentino, che adesso è Tour of Alps». 

La globalizzazione ha penalizzato il nostro ciclismo?
«Quando mi chiedono se con questa ipotetica squadra faremo il Giro d’Italia o il Tour, io cosa gli rispondo? Che magari possiamo correre in tutti i Paesi dove l’azienda ha interessi, clienti, fornitori. In Kenya, in Oman, o in Cina. Ma che corsa è?».

E’ favorevole alla riduzione del numero dei corridori per squadra?
«Non serve alla sicurezza, i corridori cadono lo stesso. Avrei capito la riduzione se avessero aumentato il numero delle squadre: otto corridori e ventiquattro squadre. Ma i team del World Tour non vogliono, preferiscono correre solo loro».

Cambierebbe il sistema delle wild-card?
«No, come ho detto inviterei anche due squadre in più. Certo, vince la discrezionalità degli organizzatori ma non puoi neanche sempre fare entrare le prime squadre per valore sportivo, altrimenti correrebbero sempre le stesse».

Se avesse una bacchetta magica, cosa farebbe?
«Mi piacerebbe avere la certezza che il movimento è pulito. Non perché penso che non lo sia, perché vorrei che fosse pacifico per tutti. Come è sicuro che noi del ciclismo siamo stati all’avanguardia nella lotta al doping. Quando presento i miei progetti sono io il primo a parlare del doping. Spiego che il ciclismo fa la lotta al doping dal ’65, e per questo ci sono stati tanti casi. Credo che oggi sia uno degli sport più in ordine».

Il caso Froome non fa bene all’immagine del ciclismo.
«Eh no. Ora Chris ha questo problema da risolvere, ed è una roba brutta per tutto il movimento. Intendiamoci: non è che ha vinto quattro Tour e tutto il resto perché prende il salbutamolo, però sta cosa va risolta. Il problema è che nella sua squadra non vogliono ammettere neanche uno sbaglio. Mi meraviglio di Brailsford, che ha sempre sventagliato la bandiera dell’etica: se c’è una regola, bisogna rispettarla».

Lei avrebbe sospeso Froome?
«Io rispetto le regole. Ma l’UCI cosa fa? C’è qualcosa nel regolamento che va messo a posto. Comunque io non me ne intendo, io l’asma non l’ho mai avuta anche se ero un corridore».

Froome l’ha sempre avuta?
«Guarda, io non me lo ricordo, dovresti sentire il dottore che avevamo allora, Mantovani».

Chi è Froome?
«Il Chris che ho conosciuto io era un ragazzo maturo, indipendente, determinato. Venne a vivere a Chiari da solo, si era creato un bel rapporto. Era senza macchina, e gli prestavo la mia quando doveva andare a trovare la sua ragazza. Non era il Froome di oggi, ma forte era forte anche allora. Mi ricordo il Tour del 2008, lui era un debuttante eppure nell’ultima crono di più di cinquanta chilometri, dopo venti giorni, arrivò quattordicesimo. Se non hai le qualità, quello non lo fai. Mi ricordo che dissi a un tuo collega che uno così poteva arrivare fra i primi cinque al Tour: lo dissi anche per vendere il mio... prodotto ma insomma non era così sfigato. Poi certo dopo ha fatto un gran salto».

Aveva un punto debole?
«Sì, forse gli mancava potenza. Ha sempre avuto un gran ritmo, ma adesso ha tanta forza in più. E’ proprio diverso fisicamente».

Ma c’è uno che è orgoglioso di aver fatto crescere?
«Dal punto di vista del nostro rapporto personale, dico Chaves. E’ un bravo ragazzo, uno che ascolta. Ascolta tutti, poi il buono lo tiene e il cattivo lo butta via. E’ stato tre anni con me, sento di avergli dato qualcosa. Sono convinto che quest’anno farà bene».

Un corridore del cuore ce l’ha?
«Nel mio cuore c’è Bugno. Gianni è il più forte che io abbia mai visto, il corridore per antonomasia».

Chi vincerà il Giro d’Italia?
«Dico Dumoulin. E’ un bel corridore, va forte anche in salita. Ti ricordi la Vuelta che ha perso da Aru? E quest’anno sullo Stelvio? Con tutto quello che gli è capitato, in salita non ha perso un metro. E poi se ha deciso di tornare, vuol dire che focalizzerà la sua stagione sul Giro».

Il Tour invece?
«Viene da dire Froome, però spero che Quintana si ritrovi. Ci aveva un po’ illuso».

Si può puntare a Giro e Tour?
«Ma sì, certo, io questo discorso della doppietta non lo capisco molto. Atleticamente si può fare».

Si può fare anche che Sagan vinca il quarto mondiale? Sembra che voglia provarci, arrivandoci con qualche chilo in meno.
«Vediamo se perdendo peso riuscirà a mantenere la sua potenza, ognuno ha le sue caratteristiche. Sagan è un fuoriclasse ma non può vincere il Giro d’Italia, né un Lombardia. Però fa bene a provarci, mi fa piacere vedere che ci tiene a questo mondiale. Sagan mi piace perché sdrammatizza il ciclismo, fa vedere che non è solo fatica, sofferenza e sacrificio. La fatica la fa anche lui, eccome, ma fa sembrare tutto un po’ più facile».

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