Bottecchia e i forzati della strada


di Simone Basso
Indiscreto, 14 luglio 2015

Ci si immerge nelle riprese cinematografiche del Tour, in attesa delle montagne, e se ne esce stravolti.
Gli elicotteri (Apocalypse Now o giù di lì) che volano sui panorami mozzafiato della Normandia, una corsa mai banale, al pari delle notizie che si accavallano, nel bene e nel male (vero, Gervasoni?). In Italia, costretti dalle circostanze (e dalla mancanza di cultura sportiva), la nibalite è il virus imperante dei (nostri?) telecronisti. Che, dopo ore di chiacchiere, infilano perle: su Eurosport siamo riusciti a far passare Cyrille Guimard come diesse de La Vie Claire di Tapie. Il mondo alla rovescia: Pat Riley che allenava i Celtics, gli Agnelli proprietari del Toro (anche se ci sarebbe la storiella della Torino Fiat…). Curioso che ci si dimentichi delle basi. Lo Squalo vorrebbe fare il bis consecutivo e l’unico italiano che abbia mai realizzato l’impresa, un anno dietro l’altro, non si chiamava Coppi o Bartali.

La vicenda di Ottavio Bottecchia da San Martino di Colle Umberto, classe 1894, rimane misconosciuta. Un’anabasi che pare attraversare, per sbaglio, tutto l’incipit del Novecento più feroce e dissolversi all’improvviso. Il primo italiano che vinse la Grande Boucle divenne ciclista per caso. I Bottecchia facevano la fame e Ottavio, appunto ottavo di nove figli, visse la miseria nera: prima della bicicletta per soldi, persino la Grande Guerra da bersagliere ciclista. Quattro anni tra l’Altopiano di Asiago e il Piave, due fughe dalla cattura degli austroungarici e la malaria. 

Finito il conflitto, cominciò alla chetichella l’epopea. Muratore in quel di Clermont Ferrand, la Francia nel destino, l’avventura partì con le sfide tra amici e proseguì iscrivendosi alle gare vere. Decisivi furono il quinto posto, da isolato, al Giro d’Italia 1923 e la firma con l’Automoto. Bottecchia divenne Botescià alla corte del Re Sole del movimento transalpino, l’incredibile Henri Pélissier. Campionissimo misantropo, il primo vero personaggio mediatico dello sport professionistico europeo. A Ficelle, per completare la bacheca, mancava solo il Tour e quella stagione, in bello stile, in una Nizza-Briançon che sarebbe diventata una classica alpina, eseguì. Scalzò, quel pomeriggio, un coéquipier – l’Ottavio – che stava diventando fortissimo: il secondo posto a Parigi rappresentò pure la fine degli stenti, suoi e della sua famiglia. Le tante palanche permisero una villetta a Pordenone e le prospettive di riunioni in pista munifiche: all’inizio impacciato, con la paura del cordolo, in seguito sempre più pistard provetto.

Il friulano, per l’epoca, pedalava benissimo. Strade infami, trabiccoli pesanti e scomodi, Bottecchia in sella era composto, elegante, non muoveva le spalle, pressapoco quanto il fenomenale Henri Pélissier. Per dirla con Giulio Crosti: “Davanti è brutto, brutto in viso, bello in bicicletta”. Andava su, in salita, alternando – a piacimento – accelerazioni, scatti, e progressioni da passista; un fuoriclasse e un cavallo da tiro che pareva nato per quelle fatiche disumane. Il 1924 lo consacrò, in maglia gialla dalla prima fino all’ultima giornata, quattro tappe vinte e un dominio da patron della Festa di Luglio. Si aggiudicò anche la frazione dell’epilogo, quella parigina, sollecitato da una scommessa del dottor Pierrard, massimo dirigente della sua squadra, che gli mise sotto agli occhi una mazzetta ingente di franchi. Riprese, sul rettilineo del Parco dei Principi, il fuggitivo Alancourt e lo superò di slancio. Quei soldi però non li volle, chiese (e ottenne) il Saint-Étienne, un fucile di precisione.

Fu l’edizione che inventò l’epopea de "I forzati della strada", definizione coniata dal grande Albert Londres, uno dei padri del giornalismo moderno. Il reportage che scrisse, Tour de France, Tour de Souffrance, è ancora oggi imprescindibile. «Ciò nonostante, un uomo si è salvato: è Bottecchia, la maglia gialla; è talmente in alto che nessuno sa più dove sia. È un’ora che gli stiamo dando la caccia, alla velocità di cinquantacinque chilometri orari. Passando, guardo di quando in quando nei burroni, ma non è nemmeno lì. È stato dopo il Tourmalet: non mi davo fretta, pensando che il colle d’Aspin avrebbe avuto ragione delle sue cosce. Ma appena un po' più in là intravedo qualcosa che avanza: è il naso di Bottecchia. E siccome dietro quel naso segue tutto il resto di Bottecchia, ho finalmente acciuffato il corridore. Avanza a falcate, preciso come il bilanciere di un pendolo: sembra l’unico che non faccia sforzi superiori alle sue possibilità…».

Il 1925, malgrado Desgrange si fosse divertito a rendere ancor più difficile la competizione, fu trionfale. Diede quasi un’ora in classifica a Lucien Buysse. Il ’26 invece un mezzo fallimento: si ritirò sui Pirenei, quando comprese che nella sua équipe i compagni avevano scelto di affiancare Buysse stesso. Eppure era sempre più ricco, a Natale firmò un contratto per la fabbricazione di una bicicletta col suo nome.

L’anno successivo, i titoli di coda. L’Ottavio, rincorrendo ingaggi generosi, corse una riunione ad Anversa: i bookmaker, considerando le quote, invitarono gli appassionati a scommettere in massa sull’italiano. Il trucco stava nel fare vincere un corridore di secondo piano, tale Gilles Martinet, e incassare la fotta. Bottecchia forse non capì, ingenuo, o se ne fregò: la sua vittoria mandò sul lastrico diverse persone, una si suicidò. Un mese dopo, con Ottavio in giro per l’Europa, il fratello maggiore Giovanni morì a Pordenone, investito da una macchina. Il 3 giugno 1927, una mattinata caldissima, uscì ad allenarsi verso la Carnia, attraversò Udine e, prima di tornare a Pordenone, andò a Clauzetto. Lo ritrovò agonizzante, a Peonis, vicino Gemona, un contadino: qualcuno gli aveva spaccato il cranio a bastonate. Si spense il 16 giugno e una nebbiolina di mistero si depositò sulla sua morte.

Il fascismo, il racket delle scommesse, un banale alterco: ogni ipotesi barcolla nella penombra di un iter giudiziario parziale e frettoloso. Una linea di sangue collega le esistenze di Botescià e degli altri protagonisti del romanzo. Londres, il cantore geniale della Grande Boucle 1924, perì nell’incendio (doloso?) della Georges Philippar, la nave che lo stava riportando in Francia dalla Cina. Era il maggio 1932 e indagava sulle dinamiche inenarrabili del traffico d’oppio in Estremo Oriente. A settembre Alfonso Piccin, l’amico e il gregario più fedele di Bottecchia, si ammazzò schiantandosi con la moto contro il muro di casa. Quasi tre anni più tardi Camille, l’amante di Henri Pélissier, dopo un violento alterco, uccise con cinque colpi di pistola il ras francese. Usando la stessa arma con la quale Léonie, la moglie di Ficelle, si era tolta la vita nel 1933.

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