IL CICLISMO E IL SUO “CODICE D’ONORE”
di GIANFRANCO JOSTI
InBici - 26 dicembre 2019
Il ciclismo che abbraccia gli Anni 60-90 ha avuto protagonisti straordinari che hanno dato vita a vicende altrettanto straordinarie. L’antico sport delle due ruote di quell’epoca aveva regole molto diverse che consentivano di esaltare i campioni e permettevano agli organizzatori di incidere profondamente sull’esito delle gare del calendario.
Fino al 1979 erano ammesse spinte tra corridori, quindi i vari capitani cercavano di accaparrarsi i gregari più solidi, con braccia robuste oltre che con gambe belle muscolose. Non esistevano classifiche individuali, nazionali o internazionali, basate sui punti conquistati nelle varie corse quindi ogni squadra puntava in genere su un unico capitano che aveva a completa disposizione gregari pronti a qualsiasi sacrificio. A lui lo sponsor chiedeva di vincere e di confrontarsi con altri parigrado delle altre formazioni.
Per questo in quegli anni abbiamo assistito ad epici scontri che avevano per protagonisti soprattutto i grandi campioni da Merckx a Gimondi, da Adorni a Zilioli, da De Vlaeminck a Raas, da Moser a Saronni, da Hinault a Fignon, da Argentin a Bartoli, da Lemond ad Indurain, da Bugno a Chiappucci, ma per avere un elenco attendibile bisognerebbe citarne almeno altri venti.
Poteva capitare che un gregario riuscisse a vincere qualche corsa, qualche tappa (difficilmente di grande levatura), ma guai a non aver fatto il proprio dovere: una vittoria strappata ai danni del capitano poteva avere infauste conseguenze, licenziamento compreso. Era anche un’epoca in cui direttori sportivi e capitani avevano a disposizione sufficienti risorse finanziarie per comprare alleanze indispensabili a conquistare una vittoria. Ma non sempre l’aiuto di corridori di altre formazioni era ricompensato in danaro, era previsto nel codice d’onore dei corridori “lo scambio di favori”.
Vincere la Milano-Sanremo in maglia iridata era un traguardo ambitissimo che Eddy Merckx (vincitore di ben sette edizioni delle classicissima di primavera) aveva inaugurato nel ’72 (era il quinto successo). Toccò poi a Gimondi nel ’74, la stagione successiva al titolo conquistato a Barcellona e a Saronni nell’83 (dopo lo splendido scatto iridato di Leicester).
Francesco Moser, campione del mondo in Venezuela nel ‘77 non ce l’aveva fatta, la Sanremo pareva stregata per lui anche se nella sua lunga carriera l’ha sempre disputata. Ma nel 1984 il doppio record dell’ora messicano ha proposto alla ribalta ciclistica un nuovo Moser, un corridore che adottava sistemi di preparazione all’avanguardia, che aveva rivoluzionato la dieta del ciclista, ma soprattutto aveva offuscato l’impresa di Eddy Merckx che nel ’72 a Città di Messico aveva stabilito il nuovo limite di 49,432 per oltre un decennio giudicato imbattibile. Il campione trentino, che pareva avviato sul viale del tramonto, dapprima portò il record a 50,808 (ovvero 1.376 metri più del Cannibale belga) poi, per rendere omaggio ai tifosi giunti dall’Italia, quattro giorni dopo sfondò il muro dei cinquantuno orari, percorrendo nei sessanta minuti ben 51,151 km.
Due mesi dopo lo strabiliante primato, Moser si presentò alla Sanremo (senza aver disputato la Tirreno-Adriatico né la Parigi-Nizza) suscitando molto scetticismo. Invece s’involò poco prima della discesa del Poggio presentandosi tutto solo sul tradizionale rettilineo di via Roma.
Si disse allora che aveva vinto con un “attacco alla Merckx”. Vero, verissimo. Ma grazie anche alla complicità di un occhialuto varesino, Alfredo Chinetti, che era a ruota del trentino quando questi produsse l’accelerazione decisiva e che, per accordi da tempo stabiliti, aveva “fatto il buco” al momento opportuno e Moser aveva sfruttato appieno la situazione. Ebbene, qualche settimana più tardi, Chinetti colse l’ultima vittoria della sua onesta carriera nel Giro della Provincia di Reggio Calabria grazie ad un’azione di Moser che gli schiuse le porte del successo-riparatore.
Molti anni prima, nell’autunno del 1966, anche un campione come Vittorio Adorni ricorse al codice d’onore per sdebitarsi nei confronti di Felice Gimondi. Una bella pagina che va raccontata. Nella primavera di quell’anno il ventitreenne bergamasco aveva ottenuto due strepitose vittorie nell’arco di una settimana prima alla Parigi-Roubaix e poi alla Parigi-Bruxelles. Il suo nome era sulla bocca di tutti gli appassionati di ciclismo tanto più che, l’anno prima, aveva vinto in modo assolutamente inatteso il Tour de France. Questo giovane talento stava sovvertendo la gerarchia internazionale dove personaggi del calibro di Jacques Anquetil, Rik Van Looy e Jan Janssen erano i punti di riferimento delle rispettive nazioni (Francia, Belgio, Olanda).
Per la Salvarani, la squadra in cui militavano Adorni e Gimondi, le classiche del Nord erano importantissime perché stava inaugurando una serie di negozi proprio in Belgio quindi era chiesto sempre il massimo impegno in ogni occasione. Dopo le classiche del pavé, il calendario prevedeva la Freccia Vallone e la Liegi-Bastogne-Liegi più adatte alle caratteristiche dei corridori italiani. Il direttor sportivo della Salvarani, il mitico Luciano Pezzi aveva programmato di concedere un po’ di riposo a Gimondi dopo i trionfi sul pavé e schierare Adorni come capitano nelle Ardenne.
Ma il futuro campione del mondo di Imola era stato informato però che la “vecchia guardia” (di cui era autorevole membro) aveva deciso di prendersi la rivincita sul “ragazzino” che li aveva strapazzati sul loro terreno preferito e che la Liegi si sarebbe trasformata in una sorta di rivincita. Con la scusa di un improvviso attacco febbrile alla vigilia, Vittorio Adorni dette forfait e Pezzi fu costretto a chiedere un ulteriore sacrificio a Gimondi che ne avrebbe volentieri fatto a meno. Ebbene, l’operazione-rivincita andò a buon fine tanto che quella fu l’unica classica in linea in cui si impose Jacques Anquetil, incontrastato re del cronometro, che precedette due belgi, Van Schil e In’t Ven, mentre Gimondi dovette arrendersi dopo aver respinto attacchi su attacchi.
A fine stagione, avendo deciso di lasciare la Salvarani per approdare alla Salamini-Luxor, Vittorio Adorni si sdebitò con Felice. Il Giro di Lombardia si concludeva sulla pista di Como e a contendersi la vittoria un drappello di campioni: Anquetil, Poulidor, Dancelli, Adorni, Gimondi e un giovanissimo Merckx che già aveva fatto vedere le doti di grande sprinter alla Milano-Sanremo. Con una manovra al limite della scorrettezza, Adorni era riuscito ad ostacolare il belga permettendo così al giovane compagno di squadra (che gli aveva strappato i gradi di capitano) di imporsi in volata.
a cura di Gianfranco Josti – Copyright © INBICI MAGAZINE
CHI E’ GIANFRANCO JOSTI
Gianfranco Josti è uno dei più autorevoli giornalisti del mondo del ciclismo.
Decano dei giornalisti italiani, penna pungente e fine conoscitore del mondo dello sport,
Per anni firma di punta del Corriere della Sera, autore di tanti libri di successo.
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