SHAWN KEMP: COME HIGH WITH ME

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29 ottobre 2020, siamo al 3035 della first Avenue di quella che è allo stesso tempo una delle città più piovose e più cestistiche degli Stati Uniti D’America: Seattle.

Fa già freddino e le mascherine per difendersi dal COVID, sembrano proprio fare al caso di un manipolo di fans sfegatati di una squadra che da queste parti fece battere più di qualche cuore negli anni 90, e poi fino al 2008: i Seattle Supersonics. Sono poco più di un centinaio asserragliati sull’incrocio, in mezzo alla strada: chi indossa una maglia giallo-verde numero 40, chi una numero 20, altri ancora alzano il ditone tipico del merchandising NBA, quello con cui a palazzo impedisci a quello dietro di vedere la partita. Un ditone verde, naturalmente. Ma che ci fanno questi pazzi assembrati davanti alle serrande di una drogheria a metà tra la memorabilia cestistica della vecchia squadra di casa, poi trasferita ad Oklahoma, e una farmacia? Saranno mica gli Zombie Sonics resuscitati, quei tifosi che periodicamente spuntano alle partite dei Seahawks, con cartelli di protesta che chiedono il ritorno dei Sonics a Seattle?

No, questa volta il motivo di stare assieme e festeggiare è molto più concreto: è tornato in città Shawn Kemp, mastodontica ala forte che assieme al playmaker dalla radio sempre accesa, Gary Payton, ha portato la squadra alle Finals NBA nel 1996 contro sua maestà Michael Jordan nell’anno del rientro post-baseball. Shawn è tornato con una missione chiara: riportare gioia, sorrisi, stacchi dalla lunetta e notti sognanti a tutti i propri tifosi. A Seattle non è riuscito a dare quel titolo tanto sognato dai fans che prendevano d’assalto la Key Arena negli anni ’90, ma dice che di modi per far tornare in alto (high in inglese), i suoi concittadini acquisiti, ne conosce tanti altri, e la marijuana è uno di questi.

Si perché il 30 ottobre Shawn, con tanto di forbice-giocattolo gigante stretta fra le sue mani e quelle del suo compagno di mille battaglie The Glove, il guanto, per come aderiva in difesa agli attaccanti avversari, è in città per tagliare il nastro e inaugurare finalmente un progetto a cui lavora da anni: si chiama Shawn Kemp Cannabis ed è il primo marijuana shop dello Stato di Washington; e aperto e gestito da un afroamericano. “You flew high, now we fligh high” gli dice devoto un fan, “hai volato altissimo, ora voliamo noi”, giocando sul doppio significato della parola inglese “high” che significa sì alto ma anche fumato.

Foto fanbuzz.com

Un clamoroso colpo di teatro per Shawn, al secolo “The Reign Man”, il regnante, per molti anche “The Rain Man”, l’uomo che faceva piovere, schiacciate, non fosse che è coerente con quello che è stato uno dei personaggi più affascinati della NBA in quel decennio che lo ha visto 6 volte All-Star e contendere il titolo di miglior ala forte a gente come Charles Barkley e Karl Malone. Ma anche reinventare il concetto di spettacolarità ed esplosività su un rettangolo da gioco, per poi riempire bicchieri di succo di malto e banconote di polvere bianca, più di quanto riempisse i tabellini a fine partita; il che è tutto dire visto che in quegli anni (dal '90 al '97) con i giallo-verdi viaggiava a oltre 18 punti e 10 rimbalzi a uscita.

La storia di Kemp è affascinante quanto può esserla quella di un ragazzo afroamericano cresciuto nella periferia rurale dell’Indiana, “The Basketball Country”, lo Stato dove la pallacanestro è religione prima ancora che sport. Shawn fin da piccolo fa slalom tra chi lo insulta per il colore della pelle e chi già lo idolatra per il talento che lo porterà anche ai McDonald’s All-American, assieme a quell’altra ala forte devastante e fisica tanto quanto… Alonzo Mourning, poi bandiera di Charlotte Hornets e Miami Heat.

Concord High School (1988)

Shaw Kemp è un grosso oggetto non identificato lanciato a razzo sui 28 metri legnosi delle palestre americane, una specie di LeBron prima di LeBron anche se con meno quoziente di gioco (e, vista la carriera, probabilmente anche intellettivo) e persino più ferocia. Sono 208 i centimetri che si attorcigliano attorno al ferro ogni volta che schiaccia e ha questa spettacolare idea, nuova per l’epoca, di farli roteare assieme ai suoi oltre 100 kg lungo tutto il diametro del ferro dopo ogni dunk. Una signature move che Shawn ci regalerà a ripetizione negli anni ai Sonics e che scomparirà con lui, quando la NBA deciderà di dare fallo tecnico sistematico per “taunting”, a chi deciderà di rimanere appeso al ferro oltre il tempo necessario. Eppure in NBA c’è, o meglio c’era visto che è scomparso da poco, chi come Clifford Robinson potrebbe raccontarvi di quanto quel gesto gli abbia salvato la vita, impedendo al corpo gigantesco del numero 40 di travolgere il malcapitato sotto canestro oltre che il ferro stesso.

Lo show di Shawn ha inizio con il draft del 1989 quando i Seattle Supersonics di Xavier McDaniels, lo scelgono al draft con la chiamata numero 17: all'epoca è considerata altissima dagli esperti perché l’ala, dopo sole poche settimane spese al Kentucky College - dove non supera i test attitudinali ed è costretto a saltare l’anno da freshman - nel college basketball di fatto non ha giocato; il suo è quindi un salto nel buio dalle high school alla NBA, scelta pionieristica che sarebbe stata di lì a poco di grande attualità, da Kevin Garnett in poi.

Non ci mette molto a ingranare, il "40", jersey che ben presto diventa di culto per i tifosi. Già al secondo anno, con l’arrivo della guardia ipercinetica Gary Payton, porta i Sonics ai playoff contro Portland (3 a 0 per la franchigia dell'Oregon). Inizia la Seattle-Mania, che porta la coppia Payton-Kemp nella stanze dei ragazzini d’America a suon di poster e copertine di magazine sportivi, quella che riempie le classifiche di NBA Action, quella che tutti vogliono scegliere nell’arcade più famoso dell’epoca NBA JAM.

Ha una faccia dura, squadrata, incazzosa, è il bad guy della NBA ma accanto ad una tracotanza atletica con pochi eguali, combina un hang-time e in volo un'eleganza paragonabile solo a quella dei grandi come Dominique Wilkins, che proverà ad emulare nello slam dunk contest senza però mai vincerlo.

Nel '93 vola all’All-Star Game e porta i suoi a gara7 delle Finali di Conference contro i Phoenix Suns di Barkley, la prova che manca davvero poco per il team di coach George Karl, per arrivare in fondo, con un Kemp da 20 punti, 3 stoppate e 9 rimbalzi a partita. L’anno dopo sembra essere quello buono infatti, con Seattle che si qualifica ai playoff da testa di serie numero uno grazie anche ai rinforzi Kendal Gill e al primo tedesco in NBA, Detlef Schrempf, cresciuto cestisticamente proprio a Seattle. Tuttavia accade l’imponderabile: i Denver Nuggets di Dikembe Mutombo, con l’ottavo record di conference, battono la testa di serie per 3 a 2 e i Sonics sono i primi a entrare in questo modo dalla parte sbagliata della storia.

Seattle però ci crede. Ha tutto per farcela e infatti nel '95-96 chiude con 64 vittorie la stagione regolare e si presenta in finale contro i Chicago Bulls di Jordan, un uomo in missione nell’anno post-baseball, reduci dalle 72 vittorie in stagione regolare, allora record all-time.

Kemp e Payton ci provano ma i Tori partono con un chiaro 3 a 0. Tuttavia appena Mike e compagni alzano il piede dall’acceleratore, Payton guida i suoi alla rimonta, 3 a 2, a suon di triple e trash-talking. Tornati allo United Center però i Bulls chiudono il match per il quarto titolo, nel giorno della festa del papà americana… Il resto, compreso Mike per terra in lacrime che abbraccia il pallone, è storia…

Foto usatodaysports.com

C’è un po’ di amarezza però tra gli appassionati di basket, perché Kemp piace a tanti, diverte, entusiasma, ti porta a metterti la tuta in pieno inverno e ad andare al campetto per provare ad appenderti al ferro: ti smuove dentro come solo i grandi sanno fare, e purtroppo c’è la sensazione diffusa che quella sia stata l’unica, probabilmente l’ultima grande occasione per l’anello, per la consacrazione definitiva. Ed è così infatti, l’uomo dell’Indiana rimane nella città della pioggia ancora per un anno, poi se ne andrà con un contratto faraonico ai Cleveland Cavaliers, non proprio una squadra di livello per l’epoca, e nella quale evoluiscono Bob Sura, Benoit Benjamin e pure un certo Earl Boykins, qualche anno più tardi in forza alle V Nere di Bologna. L’esperimento non è dei migliori e seppure i primi due anni nell’Ohio lo vedono veleggiare tra i 18 e i 20 di media, nella terza stagione in maglia nero/blu, il peso sotto le plance del nostro inizia a farsi sentire, non tanto a rimbalzo ma per il sensibile allargamento dei fianchi.

Foto Bleacher Report

C’è chi si chiede per quando sia fissata la data del parto, chi si preoccupa per le condizioni del nostro che, da missile terra-aria quale era, si trasforma ben presto prima in terra-terra e poi in sommergibile, trascinato sottocoperta da grossi problemi di dipendenza da cocaina e da una vita dissoluta, che lo porta a rivaleggiare ad altissimi livelli con il gigante Wilt Chamberlain. Pare sia suo infatti il record di donne all-time per un giocatore NBA. Kemp ci prova ad insidiare il primato, ma fallisce ben presto, seminando in compenso 7 figli, per citare solo quelli ufficialmente riconosciuti, avuti da sei donne diverse. Oltre allo spettro Millennium Bug, gli anni Zero ci stanno per regalare uno Shawn Kemp sempre meno interessato al Gioco di Naismith e sempre più intrigato dagli eccessi del jet-set. E qual è,negli anni 2000, la squadra che ha sublimato il concetto di eccesso per elevarlo ad arte contemporanea? Se avete barrato i Portland "Jail" Blazers, avete fatto centro.

Kemp viene spedito ai Trail Balzers, etichettati “Jail”, nome con cui gli americani definiscono le patrie galere, e a fargli compagnia in una squadra dal forte potenziale ma dal tasso alcolemico e di THC ancora più elevato, trova distribuiti sui due anni di permanenza: "mister spinello" Bonzi Wells, l’auto-proclamatosi "The Kobe Stopper" Ruben Patterson, un giovane da plasmare a suon di marijuana come Zach Randolph e l'indiscusso leader all-time di tecnici Rasheed Wallace, talento sopraffino di cui Kemp risulta il primo cambio, giocando di conseguenza pochino.

Inutile dire come sia finita. Quindici minuti scarsi di media, 6 punti a partita e l’inizio di un declino rapido e inesorabile. Ci proverà ancora però Shawn a rilanciarsi, nel bidone dell’immondizia, ad Orlando nella stagione 2002-03 alla corte di Tracy McGrady e Grant Hill. Ormai lo spettro di se stesso, devastato da alcool e droga, stanco e sovrappeso: sarà il suo ultimo anno quello nella Florida prima di passare del tempo in clinica nel tentativo di disintossicarsi.

Cinque anni dopo sente però di non aver ancora chiuso con il basket. Il problema è che è il basket ad aver chiuso con lui. In un’operazione di marketing dai contorni abbastanza comici, dopo cinque anni di inattività, l'insospettabile Sutor Montegranaro, in palese stato di ebbrezza dopo la grande annata culminata con l’eliminazione ai quarti di finale per mano dell’Olimpia Milano, prova a mettere sotto contratto nientemeno che Shawn Kemp. Il team manager Roberto Carmenati, infatti, anni prima era stato personal trainer dell’ex Sonics e aveva ancora buoni contatti per portarlo in città.

(“Scion Ghemb”)

Settembre 2008, per la cittadina delle Marche, sarà ricordato per uno dei più grandi bluff nella storia cestistica moderna: “Non aspettatevi 30 punti di media” – disse Kemp al media day “lavorerò ogni giorno per la squadra e farò tutto ciò che serve per vincere”. 

Peccato che questo non comprendesse lo sfondarsi di cibo italiano e la tonnara nei locali della riviera. Il 24 settembre il nostro sale su un aereo per gli Stati Uniti e a Montegranaro non farà mai più ritorno. La presentazione della squadra era fissata proprio per quel giorno e Shawn, l’uomo della pioggia, anche questa volta non poteva che far piovere, madonne però.

Ed eccoci allora qui, sulla 1st Avenue a Seattle, nel bel mezzo di un incrocio anonimo, davanti uno shop di cannabinoidi: l’insegna raffigura un uomo che s'invola a canestro, dalla silhouette di una celebre foto di Shawn dell’epoca, sul retrobottega un murale verde e giallo racconta la storia di una leggenda che, nella droga, ha trovato la propria fine agonistica. Ma è un grande Paese l’America, pieno di contraddizioni e di possibilità. Quello in cui un certo tipo di droga può sedarti e toglierti il talento, quella in cui un’altra può darti un motivo per ricominciare.

Fly High Shawn, e per favore, non atterrare più.

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