STORIA METAFISICA DEI NETS. DAGLI AMERICANS A BROOKLYN, PASSANDO PER UNA PALUDE
di SIMONE BASSO
Sport e cultura, venerdì 2 luglio 2021
Il finale della storia, per adesso, è proprio da Nets.
Malgrado il Barclay Center zeppo, coi VIP in (bella) mostra, le luci della ribalta (hip) pop e Dio travestito da Kevin Durant in gara5 e gara7.
Nemmeno un freak, Tracy McGrady 2002 alto 2 e 12, una roba inimmaginabile qualche anno fa, ha potuto evitare il solito epilogo. Una festa mesta.
Al netto di una combo che è stata giocoforza un esperimento in diretta, la scavigliata (decisiva) di quel fenomeno di Kyrie Irving e i vuoti di sceneggiatura – già visti su questi schermi – di James Harden. “O-ver-rated!” avrebbero urlato i quattro gatti di East Rutherford, al Barba grasso come un tacchino prima del Thanksgiving Day.
Laddove, in principio, furono gli Americans e l’ABA.
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Era il 1967 e – senza saperlo (né guadagnarci un dollaro...) – la "lega dei fuorilegge" avrebbe cambiato (per sempre) le regole del gioco: in campo e fuori.
L’avventura cominciò come Americans e il primo presidentissimo fu Arthur Brown (no, non il geniaccio che cantava “Fire” col viso dipinto). Proprietario dell’ABC Freight Forwarding Company, Brown voleva chiamare la franchigia “The Freighters” (sic).
I New Jersey Americans giocavano alla Teaneck Armory e alla vernice prestagionale, un’amichevole coi Pittsburgh Pipers, si dimenticarono le divise. Panico e soluzione: una T-shirt bianca con A-M-E-R-I-C-A-N-S e i numeri scritti a mano con un pennarello rosso. I pantaloncini? Ognuno col suo, rimediato, di colori diversi...
Il primo anno fecero una media di 2008 spettatori a match, con una cinquantina di abbonati, e persero mezzo milione di dollari. Gli Americans chiusero quarti a est, pari merito coi Kentucky Colonels.
Lo spareggio, che avrebbero dovuto disputare alla Teaneck, fu dirottato altrove: quel giorno, l’impianto era stato prenotato da un circo. Allora le due squadre virarono verso la Commack Arena a Long Island, salvo poi accorgersi – là, sul posto – che il parquet aveva i segni del passaggio di una fiera (rodeo). Noccioline, sabbia, segatura, chiodi. Avvisato dell’ennesimo inconveniente, il commissioner George Mikan (sì, proprio lui...) diede la vittoria a tavolino ai Colonels.
Quell’estate, nella teoria del caos di quella ABA, gli Americans divennero Nets per assonanza coi Mets del baseball. Per la (feroce) stampa di New York, quello zimbello di squadra erano gli Amerks e a Brown il nomignolo comunista (...) non piaceva.
I nuovi New York Nets scelsero come casa la Commack Arena a Long Island. Uno scodellone vuoto e gelido. Un mese di stagione e Levern Tart – una delle stelline – uscendo dal campo scivolò sul ghiaccio (!) e si ruppe la clavicola.
Alla Commack faceva un freddo cane, in panchina si stava coi guanti e il cappotto. Una sera Brown, inviperito dall’agonismo rivedibile dei suoi, vedendo sul pino il suo (?) All-Star Bob Verga (infreddolito) con l’impermeabile, ordinò all’allenatore Max Zaslofsky di farlo rientrare. Verga, per giocare, si tolse il pastrano..
Nel 1969-’70 Brown vendette i Nets a Roy Boe, un proprietario (da Yale con furore) ambizioso e visionario, che prese (il santone) Roy Carnesecca come tecnico.
Due anni agrodolci con Rick Barry, mica pizza e fichi, una finale (1972) persa coi dinastici Indiana Pacers di Roger Brown, e poi l’arrivo – inatteso – del profeta di questa odissea. Dai Virginia Squires, un uomo solo al comando, con la maglia biancorossoblù e l’afro: Julius Erving.
Ci si era trasferiti intanto in una specie di hangar, l’Island Garden, un cesso di palazzetto. I veterani, conoscendo la solfa, si vestivano in albergo. Le docce degli spogliatoi avevano (sempre) poca acqua calda, fuori – nel parcheggio – la merda degli elefanti (che venivano portati lì a fare i bisogni dai circensi) caratterizzava l’area.
Nel 1973, il tenacissimo Boe riuscì a portare i Nets al Nassau Coliseum e cominciò un’epopea. Dal 34-50 dell’anno precedente, la formazione allenata dal giovane Kevin Loughery partì così così e poi divenne dominante.
C’erano Billy Paultz (rimbalzi, gomiti), Brian Taylor (ninnolo pestifero), John Williamson (tiratore de luxe), Larry Kenon (panterone baciato dal talento, un po’ meno dalla continuità). Futuri paisà ovunque (John Roche, Willie Sojournier eccetera).
Tutti per uno, che stava portando il basket da strada nella pallacanestro organizzata, un superdotato che mostrava – in diretta – il futuro anteriore del gioco.
Doctor J fu la rivoluzione che non venne teletrasmessa, poiché alla ABA mancava quel contratto nazionale televisivo che invece salvò l’NBA.
Julius – un atleta fuori da qualsiasi standard – innestava Elgin Baylor, con un po’ di Connie Hawkins, in una palla con estro che faceva a meno dei centri e del rosario della palla ai “cristoni” sotto canestro.
Tra una house call chiusa con una schiacciata, testa al ferro, e un finger roll levitando in aria, col pallone nella manona come un’arancia, Erving divenne l’ABA stessa.
Il Doc portò i Nets alla terra promessa e al primo anello.
Durante le finali orientali, opposti a Kentucky (uno squadrone: Artis Gilmore, Dan Issel, Louie Dampier), avanti 2-0, in gara-3 a Lousville, l’unico momento di difficoltà e il canestro più iconico di tutta Netsville.
Parità, 15 secondi sul cronometro e palla a centrocampo a Erving; che palleggiò sul posto, facendo scorrere il tempo, e (a 4 secondi dalla sirena) si fiondò verso la lunetta. I Colonels collassarono su Doctor J che si buttò sulla sua destra, all’indietro, sul piede sbagliato (il destro) e la mise dentro di tabella.
Il bis giunse nel 1976, l’ultimo ballo ABA.
Erving era allo zenit: in regular season fece la top 10 in tutte le categorie statistiche, tranne la percentuale ai tiri liberi. I playoffs a 35 punti di media furono il suo suggello.
Le Finals, con la lega (economicamente fallita) agli sgoccioli, divennero il rendez-vous di un’epoca.
Nets contro Denver, Julius Erving contro David Thompson (ovvero Michael Jordan con dieci anni d’anticipo, se non ci fosse stata la cocaina...).
Oggi occuperebbero l’universo mediatico 24 ore al dì, ai tempi c’erano solo HBO e l’intramontabile Marv Albert.
Il Doc nelle prime quattro partite fece pentole e coperchi: mise insieme 158 punti, 51 rimbalzi, 22 assist, 8 recuperi e 7 stoppate.
Si arrivò a un’incasinatissima gara-6, col Nassau che faceva un casino impressionante: Denver scappò, sulle ali di Skywalker (42 punti), New York rinculò di brutto.
A 16 minuti dal termine, i Nets erano sotto 58-80, poi l’incontro divenne una corrida. Erving partiva dal post alto e calamitava la difesa: Super John Williamson, nell’ultimo quarto, andò in ritmo da fuori (fece 16 dei 28 punti totali nel parziale) e mise benzina alla rimonta. Il Doc scrisse 31 punti, 19 rimbalzi, 5 assist, 4 stoppate e 5 recuperi. Era il 13 maggio 1976, i Nets vinsero il secondo anello.
In caso di (un’agognata?) gara7 nella Mile High City, l’ABA (morente) si era accordata con la NBC.
Il trofeo delle Finals l’avevano rubato a Denver e a Roy Boe fu consegnato quello del ’75.
La coppa, del valore di 900 dollari, venne recapitata a 1700 Broadway – il quartiere generale della lega – due settimane dopo. Il nominativo (fantasma) recitava C.J. Flynn, 2619 Lark, Denver: al ladro, spedirla era costato 7,80 dollari...
L’accordo per entrare nell’NBA affossò la franchigia. Una clausola per l’indennità territoriale fece sì che i Knicks venissero compensati con 4,8 milioni di dollari dai Nets; che (ri) divennero di New Jersey.
Boe, senza liquidità, ai Knicks offrì Julius Erving per cancellare quei 480.000 dollari stagionali (per dieci anni). Al rifiuto da parte dei cugini ricchi, si inserì Philadelphia con 3 milioni per il Doctor. Affare fatto, ma per i 76ers: i Nets erano nell’NBA, ma semidistrutti.
Nel 1981 avrebbero trovato rifugio, dopo essere stati ospiti della Rutgers University al RAC (ottomila posti, una scatoletta), a East Rutherford. Casello autostradale W 16, nel bel mezzo del nulla, la palude dove il celeberrimo Jimmy Hoffa ebbe la tomba, ma senza una cerimonia ufficiale della mafia.
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I Nets come una fermata della metropolitana, toccata e fuga.
Bernard King (quanto era forte...), Bob McAdoo, Ray Williams (magistrale nell’uno-contro-uno quanto nel cacciarsi nei guai), tutti di passaggio, a cottimo.
Per un free agent di valore, essere scambiati a New Jersey era una minaccia.
Nel febbraio 1983, via Golden State per Sleepy Floyd e Mickey Johnson, arrivò Micheal Ray Richardson. Un Gesù del basket nato (per errore) nel Texas: genio (ignorante) assoluto, a tutto campo, rinnegato già dai Knicks e dagli Warriors. Troppi (...) vizi, una montagna di problemi.
Sugar apparve, bello come il sole nero, nell’incredibile primo turno dei playoff ’84 contro i campioni in carica, i Sixers del Doc e di Moses Malone.
Cinque match vinti contro il fattore campo.
La bella – bellissima – allo Spectrum fu iconica. Quei Nets avevano Darryl Dawkins (ex di Phila...), Buck Williams (il manuale anni Ottanta dell’ala grande), Otis Birdsong, Darwin Cook, Albert King. Tutti alla ricerca di un riscatto.
In gara-5 Williams, superstar operaia, portò la quantità (17 punti e 16 rimbalzi), Birdsong – off guard di lignaggio – ne fece 24 con 6 recuperi. Richardson si sbranò Philadelphia nel clutch, 24 punti, 6 rimbalzi, 6 assist, 6 recuperi, abitando un (non) luogo frequentato da pochissimi.
Un aleph cestistico che lui materializzava, da mutante bipolare, con la classe degli eletti e la rabbia dei rinnegati.
La luna di miele coi Nets durò tre anni: l’artista tossico del parquet a un certo punto sparì, nell’inverno del 1986, e David Stern usò le maniere forti. Sugar fu il primo squalificato a vita per aver violato (tre volte) la politica aziendale sulla droga.
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I pick improbabili, le maschere, una dietro l’altra, gli spalti semivuoti, definirono i Nets come i Clippers orientali.
Le analogie tra le due barzellette di Sternville comprendevano anche l’executive, un tempo campionissimo della rivale cittadina (più ricca e famosa).
A Los Angeles il leggendario Elgin Baylor, nel New Jersey Willis Reed, il capitano dei Knicks vincenti di Red Holzman.
Al draft del 1990 Reed pescò la prima scelta; che fu inevitabile, nelle fattezze dell’inenarrabile Derrick Coleman. Un quattro con il corpaccione di un centro, i piedi di un’ala piccola, la tecnica di una guardia e la testa di un play.
Un lustro a 20 (punti) e 10 (rimbalzi) di media nell’Atlantic anni Novanta, che si giocava nel fango (ritmo lento e botte da orbi), senza sforzo apparente. DC fu soprattutto – ahi loro – il prim'attore della (de)generazione X.
Costantemente fuori forma, pigro, indisciplinato, arrogante, mattoide, imprevedibile. Era il boss di una squadra futuribilissima che, per questi limiti (atavici), non realizzò mai il suo potenziale.
Il Turmoil Team, lo spogliatoio più incasinato dell’NBA, vantava Drazen Petrovic all'apice, una delle più produttive big guard della lega, Kenny Anderson, la migliore replica newyorchese di "Tiny" Archibald, e Chris Morris che – se sceso dal letto col piede giusto – pareva in attacco il tre meno limitabile dell’evo.
A completare il quadro, veterani (Bernard King al dessert, Rick Mahorn, poi Mo Cheeks), mani quadre (Chris Dudley e Rumeal Robinson), un pivot che sembrava uscito da Animal House (Dwayne Schintzius) e un imberbe Jayson Williams (rimbalzista galattico) che costruì subito la sua fama, di piantagrane, sparando con una pistola fuori dell’allora Brendan Byrne Arena. Per guidare il bordello, tra gli altri, due pastori di tori come Bill Fitch e Chuck Daly.
Il curriculum di Coleman si sarebbe arricchito di prodezze, non sempre con lo Spalding in mano: avremmo voluto vedere la faccia di Willis Reed, quando il (loro) giocatore franchigia si presentò – al camp prestagionale – con un libretto degli assegni già firmati (in bianco). Erano le multe per gli allenamenti che DC (il cui sogno era essere il primo a guadagnare 100 milioni di dollari con un pluriennale) aveva programmato di saltare.
Una polaroid per l’eternità, gara-4 del (complicato) primo turno 1993 coi precisini (Mark Price, Brad Daugherty, Craig Ehlo) Cleveland Cavs.
Sotto 1-2, Nets che accendevano e spegnevano, senza Anderson che in primavera – cortesia di John Starks – si era fratturato la mano durante un derby (rissa) coi Knicks.
Nel terzo quarto, Coleman chiuse la pratica della partitaccia, dominando la scena: 48 minuti, 21 punti, 14 rimbalzi, 8 assist, 9 stoppate. Prossimo alla sirena, DC, congelando la palla, chiese (e ottenne) una standing ovation dal pubblico. Sullo sfondo, lo sguardo furente di Chuck Daly..
Gara-5, una serata di sumo incrociato al basket (Pace a 87...), New Jersey l’avrebbe persa di dieci (89-99) a dispetto di un Coleman sontuoso (33 punti e 16 rimbalzi) e un buon Morris (22 e 10).
Quel Petro balneare (11 punti) fu l’ultimo momento NBA del Mozart di Sebenico: meno di un mese dopo, il 7 giugno, sarebbe morto in un incidente – assurdo – su un’autostrada tedesca.
Nell’estate 1994, Daly gettò la spugna dopo una discussione – aspra – con gli All-Star Anderson e Coleman.
Il Turmoil Team si stava autodistruggendo: dalle 45 vittorie e 37 sconfitte del ’94, i Nets del 1995 fecero un eloquente 30-52.
Chris Morris si presentò a un match con scritto “Please trade me” sulle scarpe: fu accontentato (sic).
La soap con il nuovo coach, Butch Beard, proseguì per un annetto: per solidarietà con il collega, gli allenatori della Eastern si misero d’accordo per non convocare Coleman, come riserva, all’All-Star Game.
All’inizio della stagione 1995-1996, DC fu mandato a Philadelphia in cambio di Shawn Bradley (!).
Per un quarto d’ora warholiano, il 44 era stata l’opzione numero uno di Phil Jackson in quei Chicago Bulls, nel ruolo di ala grande (prima di Dennis Rodman).
Era andata male, malissimo, ai Nets e a Coleman.
Accadde nell’off season 2001, ma non fu un caso, bensì una giocata di poker di un dirigente coi fiocchi: Rod Thorn; che spedì a Phoenix il ras di Coney Island, Stephon Marbury, che diceva “All alone number 33 all alone” nella segreteria telefonica (la fiducia nei compagni ai Nets non era al massimo...), per Jason Kidd.
Joumana sexy (la moglie di Kidd) con indosso la replica del marito, la Continental Airlines Arena meno triste del solito, un coach muto (Byron Scott).
Una combo che seguiva il profeta californiano: Kenyon Martin, enforcer di qualità, Richard Jefferson (che era lì ceduto – nel draft – per il povero Eddie Griffin: un furto...), Keith Van Horn, Kerry Kittles.
Il 2002 fu un trattato di Jasonologia: la scienza che ti faceva vincere (di più) e che gonfiava – magicamente – i contratti di chi giocava insieme a Jason Kidd. La migliore point-guard generazionale; che arrivava prima, sempre: letture, timing, in transizione, a metà campo, sul pallone in attacco e in difesa, two-way (non era mica Steve Nash...).
Una creatività quasi autistica che portò New Jersey dal fondo dell’Atlantic, 26-56, al primato a Est, 52-30.
Furono almeno quattro anni di baldoria, inaspettata.
I Nets si schiantarono nelle Finals contro i Lakers, o meglio Shaquille O’Neal: marcato – si fa per dire – da Todd MacCulloch (e Jason Collins).
Nel 2003 altra corsa esaltante, erano arrivati Rodney Rogers e Dikembe Mutombo (all’ammazzacaffé, per MacCulloch), e lo showdown cogli Spurs stavolta fu tirato (persero in sei gare).
Il 2004 vide, dopo un prologo mediocre, il cambio di allenatore con un nerd della panca – Lawrence Frank – e una banda-Kidd ancora più bella da vedere giocare.
L’acquisizione di Alonzo Mourning, malato e costretto al (primo) ritiro, fu decisiva: quei Nets, che erano corti (...) sotto, arrivarono a un quarto (in gara-6 alla Continental) dalle terze Finals di quel ciclo.
I 15 rimbalzi di differenza a favore dei Pistons quella sera, 46 a 31, impedirono forse l’occasione più ghiotta per alzare un banner.
I titoli di coda arrivarono nel 2005: prima della partenza, Martin, Kittles e Rogers andarono via, Kidd fu operato al ginocchio. Da Toronto giunse Vince Carter, che era sempre una delizia, ma Jefferson si infortunò al polso. L’orologio biologico di quei Nets si era esaurito.
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La diaspora della squadra (che fu) di Kidd tracimò New Jersey alle 18 sconfitte consecutive nel 2009, spalmate su due stagioni.
Il 2010 si concluse con un 12-70 da antologia e il rumorista dell’Izod Center che si inventò, per ingannare i vuoti sugli spalti, un campionamento del pubblico.
Intanto, dalla Russia, era sbarcato l’oligarca Mikhail Prokohrov col panorama, sullo sfondo, del progetto di Bruce Ratner del nuovissimo Barclay Center in quel di Brooklyn.
Un anno di purgatorio a Newark, abbiamo perso il conto delle arene che hanno ospitato i Nets, e l’addio definitivo al New Jersey nell’aprile 2012: una sconfitta, coi Sixers, of course.
A New York, un piano di marketing fichissimo, Jay-Z (proprietario di una quota minoritaria) e Beyoncé in prima fila, le magliette tra i graffiti, Basquiat e il nero Raiders, le Retine si sono ricollocate bene.
Cortesia pure dei Knicks, un disastro dirigenziale dopo l’altro, e dello stadio che pare una discoteca-bomboniera, con le luci simil-Broadway.
Il russo, essendo un russo, provò a forzare le regole pagando una luxury tax spaventosa (86 milioni di dollari) per una collezione di All-Star. Figurine di valore, Deron Williams, Joe Johnson, magari agli ultimi giri di pista, Kevin Garnett, Paul Pierce: non andò come sperato. L’esperimento fallì e il 21-61 del 2015 sapeva di ritorno al passato (...) ma con a bordo campo gli ingioiellati.
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Nel 2019, a Prokhurov è succeduto Joseph Tsai, taiwanese cittadino del mondo e uno dei boss di Alibaba Group: le ambizioni e i sogni di grandezza si sono moltiplicati. Oggi e domani girano attorno a Kevin Durant; che a Brooklyn ha fatto baracca con gli amici e la posse: Rich Kleiman, Jay-Z, la Roc Nation, Kyrie Irving.
Il 2021-22 sarà l’anno-chiave di questi Nets di lusso. Una regular – finalmente – normale, i tre All-NBA gestiti da Nash, un minimo sindacale di cultura di gioco. E una pressione addosso ciclopica: fate conto un gorilla sulla schiena, non quello dei Suns ma il primate del Crodino, che indossa la (vecchia) maglia 32 dei Nets.
«Ricorda ciò che erano soliti fare gli Yankees, tutte le volte.
Caricano (di giocatori il roster): lo chiamano comperarsi un titolo.
Anche i Lakers sono noti per averlo fatto».
(Julius Erving)
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