I due decenni di Abdul-Jabbar
di Simone Basso
Indiscreto | 9 giugno 2015
Tempo di NBA Finals, un’opportunità per viaggiare con la Macchina di HG Wells. Come immaginare l’androide di Akron di questi playoff nel 1975, con il pallone biancorossoblù, il numero trenta e la maglietta dei Pacers che furono… Quarantuno anni fa uno degli showdown più appassionanti di sempre, forse il più significativo degli anni Settanta, penalizzato dallo scorrere – impietoso – della clessidra. Altri scontri dell’epoca sono rimasti maggiormente nell’immaginario collettivo, rispetto a Celtics-Bucks 1974 e il motivo è banale: i New York-Los Angeles, mediaticamente, erano imbattibili. La realtà è che, se volete vedere una partitaccia, sopravvalutata e deludente, potreste rivolgervi alla (celeberrima) Gara7 Knicks-Lakers del 1973, quella dell’eroismo di Willis Reed.
Quella Milwaukee-Boston fu invece una serie straordinaria, sul filo dell’incertezza e col fattore campo che saltò ben cinque volte. Segnò il ritorno della Gang Green ai massimi livelli, dopo la dinastia di Auerbach e Russell, e l’epilogo dello squadrone del Wisconsin. Franchigia d’espansione, nata nel 1968, che ebbe la buona sorte di indovinare il verso giusto della monetina e scegliere un fenomeno, Lew Alcindor. Nel 1970-71, con l’acquisizione del grande Oscar Robertson e la maturazione del nucleo-base, i Bucks divennero il primo combo a sorpassare il 50% al tiro in stagione. Se "Big O" fosse stato più giovane… Fu difatti il declino – fisico – di Mister Tripla Doppia a impedire il bis.
Gara6 rappresenta un canovaccio perfetto per leggere quella pallacanestro NBA. Lo stile era Orientale, ovvero controllato, a ritmi bassi per l’evo, addirittura intimidatorio. I Cerbiatti, spalle al muro sul 2-3, nella bolgia del Boston Garden, condussero tutta la contesa senza ucciderla. La causa principale furono le (tante) palle perse, "implementate" da coach Heinsohn che scelse un approccio aggressivo, con Jo Jo White, Chaney e Havlicek che – durante la rimonta – pressavano fin dalla rimessa. Uno stilema tipicamente collegiale. Le squadre giunsero stremate al primo tempo supplementare, che si risolse in un ciapanò (finì 4-4). Il secondo overtime divenne un instant classic, uno dei momenti più alti nella storia della NBA. Il duello principale era Cowens vs Abdul-Jabbar. Dave, centro “piccolo”, marcava Kareem usando tutti i trucchi, legali e no. Il Rosso, che offensivamente giocava a cinque metri per obbligare il totem a star fuori e aprire gli spazi, era un rimbalzista clamoroso. Istinto, garra, posizione, tempismo, doti atletiche. Lo spirito, la cazzimma, di Cowens si esemplificavano nel primo – incredibile – gioco del filmato.
Il Trentatré era già l’arma totale della lega. Aveva l’arsenale completo: il gancio-cielo girando a destra, il jumper in avvicinamento col perno verso sinistra. In post, passatore de luxe, dettava i ritmi e suggeriva i tagli ai suoi. Difensivamente, per quel tipo di basket, era perfetto: intimidatorio ma non troppo, usava la stoppata come deviazione, alterando le parabole di tiro senza cercare il numero ad effetto. Last but not least, di là era decisivo nel clutch, il go-to guy per eccellenza.
Considerazioni sparse. I giochi a due erano tali: coinvolgevano il palleggiatore e il lungo che bloccava. Poco accadeva sul lato debole. La meccanica di tiro, nella media, era lenta e rivedibile: i quattro decimi di rilascio in elevazione (non in sospensione) di Steph Curry non erano immaginabili. Le ali erano facilitatori – molto versatili – che fungevano da raccordo tra gli esterni e i lunghi; nei Bucks, Dandridge (un All-Star) era notevolissimo in quel compito. I giocatori, quasi tutti provenienti da università con un programma cestistico di prima fascia, passavano meglio la palla: timing, tecnica individuale, lettura. Anticipiamo qualsiasi annotazione nostalgica: quel college basketball non esiste più. A quei tempi gli allenatori NCAA erano insegnanti (di pallacanestro), oggi soprattutto reclutatori.
L’ultimo parziale, leggendario, visse sul continuo alternarsi del risultato. Subito, sette punti di un enciclopedico Havlicek e quattro di Big O. Hondo era l’epitome dello swingman, riassumeva tre ruoli in uno. Versatile, essenziale, mai un gesto inutile: un vincente. Segnava sfruttando gli stagger o col palleggio, arresto e tiro; all’occorrenza fungeva da regista e collante. E difendeva tosto. Punto di congiunzione con la dinastia dei Sessanta, guidava con l’esempio: il campione più sottovalutato nella storia del gioco? Sul 99-98 Celtics, a 1’26” dalla fine, Cowens commise il sesto fallo. L’asse Dandridge-Davis, con un jumper ai limiti del circus shot, confezionò l’ennesimo sorpasso: saranno dieci in cinque minuti. A sette secondi dalla sirena, nel pandemonio, un Havlicek intoccabile scavalcò la mano protesa di Kareem e realizzò il 101-100. Il dodicesimo bandierone sulle volte del Garden era già pronto. Rimessa di Robertson al Trentatré che, in corsa, uscendo dal campo, dai quattro metri e mezzo, infilò il più incredibile dei tiri vincenti.
I Bucks avrebbero perso nella bella, lasciando troppo solo Abdul-Jabbar, raddoppiato e triplicato. Il 2/13 di Robertson, all’ammazzacaffè, li condannò. La vendetta sportiva di Kareem, al Boston Garden, giunse nel 1985. Quando, a 38 anni (!), reagendo al celebre Memorial Day Massacre dell’esordio, portò i Lacustri alla Terra Promessa. Una sfida Celtics-Lakers al calor bianco, caratterizzata da una fisicità e una violenza quasi parossistiche. Il capitano gialloviola non la decise solamente polverizzando il rivale diretto Parish; in Gara5 (36 punti, 7 rimbalzi, 7 assist, 3 stoppate) fermò un sin lì inarrestabile Kevin McHale. Fu la vittoria più importante di sempre dell’era del proprietario Jerry Buss.
Nella sesta sfida, il pomeriggio che Magic e compagni scacciarono definitivamente i fantasmi del Garden, tre ganci-cielo dell’ex UCLA sigillarono l’impresa. L’ultimo atto di Abdul-Jabbar, quarantaduenne, sarebbe arrivato ancora nelle Finals (la nona in diciotto anni...) quattro stagioni più tardi. Sul morire di Gara4 al Forum, quando andò a sedersi in panchina, assistemmo a una scena inedita: i Pistons, in coro, a qualche secondo dal loro primo titolo, lo applaudirono…
Tempo di NBA Finals, un’opportunità per viaggiare con la Macchina di HG Wells. Come immaginare l’androide di Akron di questi playoff nel 1975, con il pallone biancorossoblù, il numero trenta e la maglietta dei Pacers che furono… Quarantuno anni fa uno degli showdown più appassionanti di sempre, forse il più significativo degli anni Settanta, penalizzato dallo scorrere – impietoso – della clessidra. Altri scontri dell’epoca sono rimasti maggiormente nell’immaginario collettivo, rispetto a Celtics-Bucks 1974 e il motivo è banale: i New York-Los Angeles, mediaticamente, erano imbattibili. La realtà è che, se volete vedere una partitaccia, sopravvalutata e deludente, potreste rivolgervi alla (celeberrima) Gara7 Knicks-Lakers del 1973, quella dell’eroismo di Willis Reed.
Quella Milwaukee-Boston fu invece una serie straordinaria, sul filo dell’incertezza e col fattore campo che saltò ben cinque volte. Segnò il ritorno della Gang Green ai massimi livelli, dopo la dinastia di Auerbach e Russell, e l’epilogo dello squadrone del Wisconsin. Franchigia d’espansione, nata nel 1968, che ebbe la buona sorte di indovinare il verso giusto della monetina e scegliere un fenomeno, Lew Alcindor. Nel 1970-71, con l’acquisizione del grande Oscar Robertson e la maturazione del nucleo-base, i Bucks divennero il primo combo a sorpassare il 50% al tiro in stagione. Se "Big O" fosse stato più giovane… Fu difatti il declino – fisico – di Mister Tripla Doppia a impedire il bis.
Gara6 rappresenta un canovaccio perfetto per leggere quella pallacanestro NBA. Lo stile era Orientale, ovvero controllato, a ritmi bassi per l’evo, addirittura intimidatorio. I Cerbiatti, spalle al muro sul 2-3, nella bolgia del Boston Garden, condussero tutta la contesa senza ucciderla. La causa principale furono le (tante) palle perse, "implementate" da coach Heinsohn che scelse un approccio aggressivo, con Jo Jo White, Chaney e Havlicek che – durante la rimonta – pressavano fin dalla rimessa. Uno stilema tipicamente collegiale. Le squadre giunsero stremate al primo tempo supplementare, che si risolse in un ciapanò (finì 4-4). Il secondo overtime divenne un instant classic, uno dei momenti più alti nella storia della NBA. Il duello principale era Cowens vs Abdul-Jabbar. Dave, centro “piccolo”, marcava Kareem usando tutti i trucchi, legali e no. Il Rosso, che offensivamente giocava a cinque metri per obbligare il totem a star fuori e aprire gli spazi, era un rimbalzista clamoroso. Istinto, garra, posizione, tempismo, doti atletiche. Lo spirito, la cazzimma, di Cowens si esemplificavano nel primo – incredibile – gioco del filmato.
Il Trentatré era già l’arma totale della lega. Aveva l’arsenale completo: il gancio-cielo girando a destra, il jumper in avvicinamento col perno verso sinistra. In post, passatore de luxe, dettava i ritmi e suggeriva i tagli ai suoi. Difensivamente, per quel tipo di basket, era perfetto: intimidatorio ma non troppo, usava la stoppata come deviazione, alterando le parabole di tiro senza cercare il numero ad effetto. Last but not least, di là era decisivo nel clutch, il go-to guy per eccellenza.
Considerazioni sparse. I giochi a due erano tali: coinvolgevano il palleggiatore e il lungo che bloccava. Poco accadeva sul lato debole. La meccanica di tiro, nella media, era lenta e rivedibile: i quattro decimi di rilascio in elevazione (non in sospensione) di Steph Curry non erano immaginabili. Le ali erano facilitatori – molto versatili – che fungevano da raccordo tra gli esterni e i lunghi; nei Bucks, Dandridge (un All-Star) era notevolissimo in quel compito. I giocatori, quasi tutti provenienti da università con un programma cestistico di prima fascia, passavano meglio la palla: timing, tecnica individuale, lettura. Anticipiamo qualsiasi annotazione nostalgica: quel college basketball non esiste più. A quei tempi gli allenatori NCAA erano insegnanti (di pallacanestro), oggi soprattutto reclutatori.
L’ultimo parziale, leggendario, visse sul continuo alternarsi del risultato. Subito, sette punti di un enciclopedico Havlicek e quattro di Big O. Hondo era l’epitome dello swingman, riassumeva tre ruoli in uno. Versatile, essenziale, mai un gesto inutile: un vincente. Segnava sfruttando gli stagger o col palleggio, arresto e tiro; all’occorrenza fungeva da regista e collante. E difendeva tosto. Punto di congiunzione con la dinastia dei Sessanta, guidava con l’esempio: il campione più sottovalutato nella storia del gioco? Sul 99-98 Celtics, a 1’26” dalla fine, Cowens commise il sesto fallo. L’asse Dandridge-Davis, con un jumper ai limiti del circus shot, confezionò l’ennesimo sorpasso: saranno dieci in cinque minuti. A sette secondi dalla sirena, nel pandemonio, un Havlicek intoccabile scavalcò la mano protesa di Kareem e realizzò il 101-100. Il dodicesimo bandierone sulle volte del Garden era già pronto. Rimessa di Robertson al Trentatré che, in corsa, uscendo dal campo, dai quattro metri e mezzo, infilò il più incredibile dei tiri vincenti.
I Bucks avrebbero perso nella bella, lasciando troppo solo Abdul-Jabbar, raddoppiato e triplicato. Il 2/13 di Robertson, all’ammazzacaffè, li condannò. La vendetta sportiva di Kareem, al Boston Garden, giunse nel 1985. Quando, a 38 anni (!), reagendo al celebre Memorial Day Massacre dell’esordio, portò i Lacustri alla Terra Promessa. Una sfida Celtics-Lakers al calor bianco, caratterizzata da una fisicità e una violenza quasi parossistiche. Il capitano gialloviola non la decise solamente polverizzando il rivale diretto Parish; in Gara5 (36 punti, 7 rimbalzi, 7 assist, 3 stoppate) fermò un sin lì inarrestabile Kevin McHale. Fu la vittoria più importante di sempre dell’era del proprietario Jerry Buss.
Nella sesta sfida, il pomeriggio che Magic e compagni scacciarono definitivamente i fantasmi del Garden, tre ganci-cielo dell’ex UCLA sigillarono l’impresa. L’ultimo atto di Abdul-Jabbar, quarantaduenne, sarebbe arrivato ancora nelle Finals (la nona in diciotto anni...) quattro stagioni più tardi. Sul morire di Gara4 al Forum, quando andò a sedersi in panchina, assistemmo a una scena inedita: i Pistons, in coro, a qualche secondo dal loro primo titolo, lo applaudirono…
Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto
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