«Io, figlio di un genio ribelle e rivoluzionario Il calcio totale di Johan tra gol, idee, look e fumo»

7 Feb 2025
La Gazzetta dello Sport
di Filippo Maria Ricci

Jordi Cruijff Ex calciatore come il papà, mito olandese e mondiale: «Cognome pesante, ma la pressione è diventata orgoglio Noi due? Non si fanno paragoni tra mortali e immortali»

Non gli importava aver perso il Mondiale del 1974 contro la Germania: valeva molto di più per lui aver cambiato il modo di giocare

Jordi, non Jorge. Ecco, già col nome l’esistenza dell’unico figlio maschio di Johan Cruijff è iniziata in maniera eclatante. Se il cognome era pesante, il nome è stato rivoluzionario, perché nella Spagna tardofranchista del 1974 i nomi catalani erano proibiti. Ma il dio del calcio olandese era un tipo ostinato e determinato oltre che ribelle, e tenne il punto: suo figlio all’anagrafe fu Jordi. L’abbiamo incontrato nella magnifica palazzina dedicata alla memoria del padre nell’elegante quartiere della Bonanova di Barcellona: qui Johan vive attraverso l’impegno dei famigliari tra fondazione, scuola, solidarietà, pedagogia anche calcistica.


GETTY-AFP1 Finale Cruijff in azione contro la Germania nella finale mondiale persa dall’Olanda nel 1974 2 Insieme Johan con il figlio Jordi 3 In azione Jordi calciatore, in azione con la maglia del Manchester United. Ha giocato anche con Barcellona, Celta Vigo, Alaves, Espanyol, Metalurh Donetsk e La Valletta

► Il primo ricordo sportivo legato a suo padre.

«Gliene dico due. Il primo è un gol all’Haarlem, dicembre 1981. Mio padre ha 34 anni, io quasi 8. Siamo appena arrivati da Washington e il ritorno di papà all’Ajax è stato motivo di discussione: aveva lasciato il Barça e l’Europa da tre anni per andare in un calcio meno competitivo, c’erano dubbi su forma ed età. Soren Lerby gli dà il pallone al limite dell’area, lui salta un uomo in diagonale e dal vertice destro batte il portiere con un pallonetto. Tutti in piedi. E io con loro, prima presa di coscienza “live” della grandezza di mio padre. Un anno dopo, dicembre 1982, partita con l’Helmond Sport. Rigore per l’Ajax, batte papà che passa a Jesper Olsen, triangolo chiuso con gol a porta vuota. Io sono in tribuna: silenzio, confusione, stupore, poi il caos. “Ma è legale? Si può fare?”. Nessuno aveva mai battuto un rigore in questo modo. Una piccola rivoluzione, il bambino che è in me conosce un altro pezzo, molto grande, di suo padre».

► E l’ultimo?

«Non è l’ultimo, ma per me è significativo: Wembley 1992, finale di Coppa Campioni tra Barcellona e Samp. Koeman segna e mio padre esce dalla panchina per festeggiare. Deve saltare la barriera pubblicitaria e inciampa. Se fosse caduto quel video sarebbe rimasto nella storia del calcio. Restò in piedi, in una giornata storica per il Barça, che vinse la sua prima Coppa d’Europa. Per me li c’è tutta la vita di mio padre: era coraggioso, rivoluzionario e la cosa comportava dei rischi. A volte gli è andata bene, altre no. Però osava sempre».

► Ci viene in mente la finale del Mondiale del 1974, persa contro la Germania Ovest.


«Io glielo ricordavo spesso: “Quella medaglia non era d’oro, era di un altro colore”. E lui, convinto: “A me va bene così, con il Total Football abbiamo rivoluzionato il calcio. Preferisco che la gente ci ricordi per questo che per il colore della medaglia”. Lo ripeteva sempre, sempre, e non era una difesa, eh? Era il suo modo di intendere la vita».

► E lei? Ha fatto il calciatore, l’allenatore, il dirigente e il giornalista, come suo padre.

«Perché a un certo punto la pressione si è trasformata in orgoglio, mi sono liberato. Io vivo bene finché sto in Olanda. Lì nessuno fa caso al mio cognome, e soprattutto nessuno fa paragoni tra un ragazzino e una stella mondiale. Quando arrivo in Spagna alla cantera del Barça le cose cambiano. Alla gente qui il tema padre-figlio piace, come le esagerazioni: se giochi bene la tua partita è eccellente, se giochi male fa schifo, senza equilibrio. Mi mettono uno zaino pesante sulle spalle. E soffro. Anche perché mio padre non è un tipo facile: molti lo adorano, ma ha anche nemici che se non riescono a colpirlo direttamente cercano altre strade. Il figlio, ad esempio. Sono riuscito a farmi strada, ma mi sono liberato solo quando sono andato al Manchester United».

► Estate 1996.

«Esatto. Che estate: la Spagna mi vuole per le Olimpiadi di Atlanta, l’Olanda per l’Europeo, Radomir Antic per il suo Atletico che ha appena vinto il doblete, e persino il Real Madrid. Si immagina un Cruijff vestito di bianco? Ecco. Era una pressione eccessiva. Mi accordo con l’Ajax di Van Gaal, che dopo due finali di Champions consecutive stava vendendo e ricostruendo, poi arriva Sir Alex Ferguson, col Barça avevamo battuto lo United 4-0, e mi convince ad andare a Manchester. C’è la generazione del ‘92: Beckham, Scholes, i Neville, mi piace. Scelgo Olanda e United. E lascio lo zaino in Spagna. In Inghilterra è faticoso, è un altro calcio: in Liga la gente si alzava per un dribbling, in Premier per una scivolata di Roy Keane. Mi faccio male, gioco poco, e dopo quattro anni capisco che preferisco essere protagonista in un calcio minore che marginale in un grande club. Inizia una nuova vita, felice. Il punto più alto è la finale di Coppa Uefa del 2001 contro il Liverpool: segno il 4-4, ai supplementari ci facciamo un “golden autogol”… Negli ottavi avevamo eliminato l’Inter, un “equipazo” con Vieri, Zanetti, Recoba, Cordoba, Seedorf… segnai nel 3-3 in casa e nello 0-2 a San Siro».

► E l’orgoglio di cui parlava?

«È la consapevolezza acquisita dell’importanza di mio padre per un sacco di gente. Che nasce allora ed è intatta oggi a quasi nove anni dalla sua scomparsa. L’affetto che ricevo per il mio cognome continua a commuovermi. C’è chi ricorda i gol, chi le idee, chi il suo modo di giocare, chi il suo modo di vestire. Qui a Barcellona c’è anche il tema politico legato alla scelta del mio nome quando era proibito. I più giovani hanno l’allenatore, il Dream Team, il chupa chup che sostituì la sigaretta, l’impermeabile. E tutti si emozionano. Non si tratta di fare paragoni: lui era in quello 0,1% di fenomeni, io col resto, il 99,9% dei calciatori, gente che viene, gioca e poi viene sostituita da qualcun altro. Non si fanno paragoni tra mortali e immortali».

► E in questa palazzina il nome di Johan resta vivo.

«Sì, grazie alle mie sorelle e a tanti professionisti. Mio padre ha fatto tanto partendo sempre dall’esperienza personale. Non aveva finito le scuole e si era reso conto di essere stato molto fortunato perché non si era mai fatto male. È stato durissimo con noi figli in tema di studi: se prendevo brutti voti non mi allenavo. Con la scuola ha cercato di dare un’opportunità a chi non l’aveva. Lo stesso in tema di inclusione: quando vivevamo in America i vicini avevano un figlio con sindrome di Down. Gli altri ragazzi per strada lo escludevano, così mio padre scese a giocare con lui. Andò in viaggio e quando tornò il bambino era parte del gruppo: papà si rese conto della forza sociale dello sport, e da lì sono partite tante iniziative. Noi cerchiamo di portare avanti il suo pensiero, le sue idee, la sua filosofia, anche nel football. Con orgoglio». E senza pressione.

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