La cotta di Battaglin ad Arenzano - 1975: la magia del Giro vissuto alla radio
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Con la radio si può scrivere leggere o cucinare
non c'è da stare immobili seduti a guardare
forse è proprio quello che me la fa preferire
è che con la radio non si smette di pensare
(Eugenio Finardi)
di Mario "Cancel" Silvano
All'inizio degli anni '70 la radio reggeva ancora bene il confronto con la televisione. Se quest'ultima, infatti, aveva modificato le abitudini degli italiani nel decennio precedente, la radio manteneva ancora intatto il suo fascino.
C'erano trasmissioni, all'epoca, considerate cult, come Gran Varietà, la domenica mattina, una rassegna impagabile di sketch comici e canzoni; il Gambero, un quiz "alla rovescia" condotto da Enzo Tortora e, poi, da Franco Nebbia; la Corrida, i "dilettanti allo sbaraglio" presentati da Corrado; Chiamate Roma 31 31 e Hit Parade.
Per non parlare di Alto Gradimento, che per noi ragazzi costituiva un appuntamento irrinunciabile, con quei personaggi surreali di Mario Marenco e Giorgio Bracardi.
E che dire di Radio Montecarlo? Metteva in onda canzoni che non venivano trasmesse dalla Rai e costituiva in quel periodo un canale d'accesso alla musica di tutto il mondo.
Nel '76, poi, sarebbero arrivate la radio libere e tutti avremmo riamato la radio perché, come cantava Eugenio Finardi, si potevano fare tante cose mentre la si ascoltava.
Anche nello sport la radio manteneva un primato: Tutto il calcio minuto per minuto permetteva di seguire il secondo tempo delle partite e così prima di Novantesimo Minuto sapevamo già cosa fosse successo sui campi .
Allo stadio avevamo tutti (o quasi) la radio: chi con l'auricolare (mica le cuffiette stereo!), chi senza, e c'erano dei momenti, a Marassi, che le voci di Sandro Ciotti e di Enrico Ameri si diffondevano per le gradinate.
La televisione, invece, si era impadronita da tempo del ciclismo: le dirette della tappe del Giro d'Italia erano diventate un appuntamento irrinunciabile che avevano relegato le radiocronache ad un ruolo accessorio. Erano lontani i tempi delle radiocronache di Mario Ferretti e dei siparietti di Girigiro vivacizzati – tra gli altri – dalle voci del Quartetto Cetra che avevano accompagnato una generazione di sportivi.
Questo almeno fino al 1974.
Quell'anno, infatti, la Rai decise di non trasmettere il Giro d'Italia in diretta, ma di dedicare alla corsa rosa uno spazio serale, intorno alle 19, sul secondo canale. Solo una cronaca differita della tappa del giorno: pareva una scelta incredibile, dettata forse dal fatto che gli ultimi giri erano stati territorio di caccia degli stranieri. Fu dura ma, noi sportivi dell'epoca – sia pure a malincuore – ci adattammo. Costretti a seguire le tappe di quel Giro incollati alla radio, riscoprimmo il piacere di viaggiare con la fantasia. De Zan fu sostituito da voci che diventarono familiari: Rino Icardi e Alfredo Provenzali, per citarne alcuni, ci accompagnavano in quei pomeriggi di maggio.
Un orecchio alla radio, dunque, e un occhio ai libri, per preparare le ultime interrogazioni dell'anno scolastico. Fu in questo modo che seguimmo le prime vittorie in volata di Pierino Gavazzi, il successo di Fuente a Sorrento e il suo crollo nella tappa di Sanremo. Fu alla radio che ci appassionammo alla sfida sulle Tre Cime di Lavaredo.
Il black out televisivo continuò anche l'anno successivo e, quasi, cominciava a piacerci quel ritorno all'antico, che metteva ancora più la voglia di essere sulla strada.
Per noi genovesi, quell'anno il Giro arrivava a due passi da casa, ad Arenzano, e allora bisognava esserci per vedere da vicino i protagonisti delle due ruote.
Merckx non c'era, Motta e Dancelli avevano abbandonato l'anno prima, Gimondi, Bitossi e Zilioli non erano più dei ragazzini. C'era in atto un ricambio generazionale: Moser, Battaglin e Baronchelli sembravano destinati a rimpiazzare i campioni della nostra infanzia, com'era giusto che fosse.
I tempi, d'altronde, cambiavano anche per noi.
Il Parlamento aveva da poco approvato la legge sulla maggiore età, abbassata a diciott'anni: si trattava di aspettare un anno ancora per essere grandi davvero, anche se ormai ci sentivamo quasi adulti.
Si poteva già uscire da soli la sera, purché si rientrasse – sorrideranno i ragazzi – entro mezzanotte, e quella gita scolastica di due giorni a Tarquinia e a Cerveteri sembrava una sorta di anticipazione di quello che ci sarebbe accaduto negli anni successivi.
Nel Giro del '75, assente il Cannibale, Torriani si inventò un finale sullo Stelvio. Moser per protesta disertò: troppo smaccato il favore nei confronti del Tista che, solo un anno prima, aveva "rischiato" di vincere sulle Tre Cime. Pareva fatto apposta per il lombardo, quel Giro! Per lui o per Battaglin, che in quanto a salite non aveva nulla da temere. Lo scalatore di Marostica, anzi, aveva fatto capire sin da subito che non avrebbe scherzato.
Vincitore nel primo arrivo in salita ai Prati di Tivo, fu in rosa già al terzo giorno, e solo un leggero ritardo nella tappa di Campobasso aveva consegnato il simbolo del primato all'iberico Galdos.
Battaglin lo teneva nel mirino e nella cronometro di Forte dei Marmi riconquistò il primo posto in classifica grazie ad una prova che ebbe quasi dell'incredibile. Volò, quel giorno, il veneto sul lungomare della Versilia e ci fu – in gruppo e fuori – chi fece qualche cattivo pensiero.
Dopo il giorno di riposo ci si attendeva, nella cronoscalata del Ciocco, la stoccata decisiva della maglia rosa sul suo terreno prediletto.
Battaglin, invece, quel giorno andò in crisi, perse terreno sulle rampe della salita della Garfagnana e perse la maglia rosa, che finì sulle spalle del suo Coéquipier Fausto Bertoglio che, a sorpresa, si era aggiudicato la vittoria di tappa.
Nulla era compromesso per il capitano della Jolljuceramica: sei secondi appena lo separavano dal suo gregario, e restavano ancora i due arrivi in salita alla Maddalena e al passo dello Stelvio.
Era pur vero che Galdos, terzo in classifica, aveva due minuti di ritardo e il Tista – insieme a Gimondi – ne aveva tre: non erano fuori dai giochi, ma per quello che si era visto non parevano impensierire troppo il campione veneto.
Il giorno successivo il Giro, lasciando le spiagge della Versilia, avrebbe fatto tappa ad Arenzano. Una tappa tranquilla, quella che ci voleva per riprendersi dalle fatiche degli ultimi due giorni.
Bisognava esserci, sul lungomare della cittadina del ponente genovese, fosse solo per respirare l'aria del Giro. Dopo tanta radio, insomma, volevo vedere dal vivo la carovana rosa. Peccato per il tempo, perché – pur essendo il primo giugno – pareva di essere ad inizio primavera: cielo grigio, vento e pioggia. Ci andai in treno con mio padre, sicuro di assistere ad un arrivo a ranghi compatti.
E invece... Invece non c‘è mai nulla di scontato nel ciclismo come in tutti gli sport, o nella vita. Le prove apparentemente più facili nascondono spesso insidie, mentre talvolta le difficoltà insormontabili non si rivelano quei mostri che avevamo immaginato.
E così può accadere che una tappa di trasferimento si riveli decisiva per le sorti del Giro d'Italia. Capitò, dunque, che nella salita verso il passo Foce dei Carpinelli – una innocua salita che collega la Garfagnana ad Aulla – l'andatura del gruppo cominciò a salire.
Forse per caso o – più probabilmente – no, gli uomini della Scic e della Bianchi (le squadre di Baronchelli e di Gimondi) scandirono il passo.
Allo scollinamento il gruppo era sgranato e Battaglin (era ancora inizio tappa, diamine!) non passò tra i primi. Nella successiva discesa si trovarono davanti venti uomini: si guardarono in faccia e si guardarono intorno. La maglia rosa era con loro, ma il capitano della Jolljceramica dov'era?
Poteva trattarsi di un momento di distrazione, ma se fosse stata la spia di un malessere, perché non approfittarne? Ci credettero, quei venti, e cominciarono a spingere nella valle del Magra. Avevano un minuto di vantaggio sul gruppo di Battaglin e, quando imboccarono la Val di Vara, furono sorpresi da una pioggia via via più insistente. Pioveva a dirotto a Brugnato, un nubifragio. Battaglin era ancora dietro di sessanta secondi, ma c'era qualcosa che non andava perché quando Lasa, Galdos, Bitossi e Fabbri scattarono per riportarsi sul gruppo dei primi, Giovanni non si mosse.
Solo allora Fontana, il suo ds capì: ordinò a Knudsen, che scortava la maglia rosa, di fermarsi ad aspettare quello che era pur sempre il suo capitano.
Bertoglio comprese che le gerarchie erano ancora quelle di inizio Giro e che un sacrificio andasse pur fatto. Certo non si aspettava, il bresciano, che la seconda ammiraglia andasse al rifornimento e lo lasciasse da solo. E se lui avesse forato, che sarebbe successo? Baronchelli (e non solo lui, in verità) pareva avesse trovato chissà quali energie, quasi che il Bracco – che da anni non impensieriva più nessuno – gli ricordasse le Tre Cime di Lavaredo.
L'Aurelia pareva un fiume in piena e quando i primi scollinarono la situazione non era ancora compromessa per il capitano della Jolljceramica. Un minuto, o poco più, ma mancavano ancora tanti chilometri all'arrivo.
Fu sulla salita delle Grazie, una piccola rampa tra Chiavari e Zoagli, che Battaglin capì che stava perdendo terreno. A Rapallo aveva un minuto e quaranta e quando imboccò la Ruta, una salita che dovrebbe essere fatta "a tutta", si bloccò.
In cima erano più di tre i minuti di ritardo, quattro a Sori: i saliscendi del levante ligure furono per lui peggio di una tappa dolomitica.
Quando Proserpio, il mitico speaker del Giro, annunciò sul traguardo le dimensioni del ritardo, stentammo a crederci. Eppure lo sapevamo già, perché avevamo la vecchia radiolina, quella che mi era stata regalata dallo zio Gino, e che già ci aveva detto tutto.
Li vedemmo uscire dall'ultima galleria, quei venti indemoniati che si presentarono sul lungomare di Arenzano per disputare la volata. Bitossi, vecchio leone, ne fece una delle sue: ai duecento metri era già davanti e tagliò il traguardo a braccia alzate, davanti a Paolini, Lasa e De Vlaeminck.
Non restava che aspettare Battaglin. Ci vollero quasi dieci minuti, e parvero interminabili. Lo ricordo ancora mentre saliva sull'ammiraglia della Jolliceramica, fradicio e con quella tosse che lo tormentava. Fu tanta la suggestione del momento che per molti anni fui convinto che si fosse ritirato, al termine di quella tappa.
Non avrebbe dato forfait, l'atleta di Marostica. Avrebbe continuato, arrivando anche lui in cima allo Stelvio per applaudire Bertoglio.
Però quel giorno di Arenzano gli rimase indigesto, tant'è che – e sono passati ormai trentaquattro anni – ha declinato l'invito rivoltogli dal comitato organizzatore in occasione della manifestazione di presentazione della tappa odierna; non se l'è proprio sentita di rinnovare il ricordo di uno dei giorni più amari della sua carriera.
D'accordo, potrebbe dire qualcuno, ma Bitossi c'era? Si, c'era il grande Franco, e lo ha candidamente confessato che quel giorno vinse perché veniva da quattro giorni di riposo. E la tappa l'avevano fatta gli altri.
Fu la sua ultima vittoria al Giro, quella di Arenzano, nel giorno in cui al suo paese si festeggiava la costruzione del ponte sull'Arno, agognato da sempre.
Ritornammo ad ascoltare la radio all'indomani di quella tappa, ed eravamo a San Fruttuoso di Camogli il sabato successivo – l'ultimo giorno di scuola – quando era prevista la sfida decisiva sullo Stelvio. Bertoglio si incollò alla ruota di Galdos e il Giro fu suo.
Toccò a Claudio Ferretti descrivere dalla moto le ultime fasi della tappa. Fu una radiocronaca che riportò alla mente, in chi aveva avuto la fortuna di ascoltarla, quella realizzata da Ferretti senior, il giorno della Cuneo-Pinerolo di ventisei anni prima.
Altri personaggi, certo, ma quel giorno sullo Stelvio sarebbe stato ricordato per tanti anni: per il duello tra Bertoglio e Galdos, ma anche perché quella sfida fu vissuta alla radio, come ai vecchi tempi.
Poi, l'anno successivo, ritornò la diretta televisiva: "Video killed the radio stars", e restò un po' di nostalgia per quei pomeriggi di maggio attaccati al transistor quando con la fantasia eravamo anche noi sulle montagne alpine, in mezzo alle fughe, nelle volate di gruppo per applaudire ed incitare i corridori. E si riusciva anche a fare la versione di greco. Che potevamo volere di più?
Mario "Cancel" Silvano
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