«Che cosa c’è dietro?» Le follie dei complottisti
Teoremi - La paranoia del «cosa c’è dietro?» è prevedibile e banale
Ma è sconcertante come sia riuscita a mettere radici in Occidente
16 Jul 2024 - Corriere della Sera
di Federico Rampini
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È stato Trump. No, Biden. Perché la teoria dei complotti affligge gli USA. Erano passati pochi minuti dall’attentato e già fiorivano teorie del complotto. Dal teorema «è stato Trump a organizzarsi da solo questa messinscena» a quello per cui «è stato Biden a tentare di farlo fuori, vedi il flop inspiegabile del Secret Service». Il virus della dietrologia ha colpito ancora, implacabile. Deve esserci una verità alternativa ben diversa dalla verità apparente. La paranoia del «cosa c’è dietro» è prevedibile, scontata, banale. È sconcertante per il modo in cui ha messo radici nelle società occidentali. È normale che i sudditi di un regime dispotico non credano all’informazione che ricevono: il regime autoritario mente sistematicamente. A Mosca o a Pechino gli individui pensanti sono al corrente di vivere avvolti nella censura, nella propaganda di Stato, nelle fake news. È meno ovvio che nelle nostre democrazie, pluraliste e trasparenti, si debbano sempre sospettare segreti scabrosi.
Per l’attentato a Trump una delle spiegazioni dietro la paranoia è la faziosità politica che segna le due tribù, democratica e repubblicana, soprattutto le ali estreme. Un pezzo di società americana è convinta che la sinistra possa arrivare a eliminare fisicamente Trump. A conferma, è stata riesumata una copertina del magazine The New Republic che raffigurava Trump come Hitler. Se davvero per una certa sinistra lui è l’equivalente del dittatore nazista, allora un suo assassino va considerato un eroe? Di qui il sospetto che nell’attentato di sabato sera in Pennsylvania gli errori del Secret Service fossero «comandati» da Biden per far fuori il rivale che rischia di vincere le elezioni. All’estremo opposto, la sinistra ha demonizzato Trump a tal punto che non può accettare di vederlo oggi nel ruolo di vittima: quindi a ordire l’attentato dev’essere stato lui. L’intelligenza naufraga nel vortice di queste dietrologie. Però non c’è nulla di nuovo sotto il sole.
Le teorie del complotto hanno una tradizione così antica, che uno dei più grandi storici americani del Novecento, Richard Hofstadter, ne ricostruì le origini in un saggio pregevole: «Lo stile paranoide nella politica americana». Quello scritto risale al 1952, non a caso in pieno maccartismo, la caccia alle streghe che portò a purghe anticomuniste agli albori della guerra fredda. Hofstadter trovava materiale abbondante già nel Settecento e nell’ottocento. Un decennio dopo la pubblicazione di quel libro, l’assassinio di John Kennedy nel 1963 diede un altro impulso potente alle teorie cospirative.
Poi l’11 settembre 2001 segna l’inizio dell’èra post-moderna nelle fake news: la paranoia entra in una proliferazione digitale. L’aggressore — Al Qaeda — veniva dal campo delle «vittime», nel manicheismo dei terzomondisti: veniva cioè dal mondo arabo-islamico, per definizione catalogato fra gli oppressi della terra. L’aggredito — l’America di Bush, o New York/Wall Street come capitale della finanza globale, o il Pentagono di Washington — era considerato l’impero del Male, il colpevole di tutte le sofferenze planetarie. Poiché con l’11 settembre era il presunto «debole» ad attaccare l’odiata superpotenza e a spargere sangue innocente facendo strage di quasi tremila cittadini inermi, per la componente faziosa della sinistra i casi erano due. O si aveva il coraggio di applaudire Osama Bin Laden, di celebrare la strage come un trionfo della giustizia: così fecero tanti palestinesi e varie folle arabe che si riversarono sulle piazze nei loro Paesi. Oppure si trovava un accorgimento più miracoloso per salvarsi l’anima: pretendere che l’orrore era stato in realtà ordito dagli americani stessi, magari in combutta con il Mossad israeliano. È la macabra scorciatoia del pensiero magico che assolve il carnefice e processa la vittima.
Resta inquietante il paragone tra le nostre società democratiche e i regimi autoritari. Se chi vive sotto un despota ha ragione di diffidare per principio, perché tanti cittadini di sistemi politici liberi soffrono della stessa sindrome del sospetto permanente? La dietrologia è una malattia senile di una democrazia decadente, che perde consenso perfino sulle sue regole del gioco fondamentali?
Non ci aiuta il nuovo panorama dei media. Ancora ai tempi di John e Bob Kennedy, o dello scandalo Watergate che travolse Richard Nixon, in America c’erano grandi giornali e reti tv che venivano considerati degli arbitri abbastanza imparziali. Oggi i più grandi media americani hanno scelto una vocazione partigiana. L’avvento dei social ha aggravato il problema: gli algoritmi che intuiscono le nostre preferenze ci costruiscono delle «casse di risonanza», per cui riceviamo informazioni omogenee e selezionate dai nostri pregiudizi.
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