Addio Ormezzano: sessant’anni di sport, di vita e di giornalismo


Torinese e torinista, in carriera ha diretto anche “Tuttosport”, ha seguito 25 Olimpiadi, tra estive e invernali, 28 Giri d’Italia, 12 Tour. Ha scritto libri e partecipato a trasmissioni televisive

2 gennaio del 1960 - La sua grande carriera iniziò con la morte di Fausto Coppi: venne inviato all’ospedale di Tortona e la missione gli valse i complimenti

28 Dec 2024 - Il Fatto Quotidiano
» Roberto Beccantini
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Ci sono persone che restano anche quando se ne vanno. Gian Paolo Ormezzano era, è e sempre sarà una di queste. Avrebbe compiuto 90 anni il prossimo 17 settembre. “GPO”, la sua sigla di battaglia. Torinese e torinista, nuotatore da ragazzo e poi onni-giornalista. Fu direttore di Tuttosport, editorialista de La Stampa, di Famiglia Cristiana e del Guerin Sportivo, collaboratore dell’edizione torinese del Corriere della Sera. Illustrò le moviole per il settimanale Il Giornalino. Volto televisivo, dal Processo alla tappa a 90° minuto, mai in fuga dall’anima, adorava i giochi di parole. Come, per esempio “Oro o mai più”, il titolo dedicato ai 1500 di Franco Arese a Helsinki, il 15 agosto 1971. Era la finale europea: e oro fu. O come “Din Don Dan-celli” in onore del trionfo di Michele Dancelli alla Milano-Sanremo del 1970.

HA SEGUITO 25 Olimpiadi, tra estive e invernali, 28 Giri d’italia e 12 Tour. Lo conobbi a Tuttosport. Assunto da Giglio Panza, nell’estate del 1974 Ormezzano mi trasferì dal basket al calcio. Le onde della memoria si schiantano contro gli scogli della vecchiaia, ma mi sarà impossibile dimenticare quel giorno, uno qualunque, che, entrando in redazione, lo beccai nella sua tana, solo.

Solo per modo dire. La cornetta del telefono incollata all’orecchio grazie a una gota reclinata e a un braccio pendulo; la voce che dettava un pezzo e le mani che, sui tasti, ne picchiettavano un altro.

“Olivie e Marie figlie mie”: l’incipit, leggendario, delle sue poesiole in terza pagina.

Nacque, la sua carriera, “grazie” a una morte. La morte di Fausto Coppi. Era il 2 gennaio del 1960 e dall’ospedale di Tortona giungevano notizie ambigue, né lievi né tragiche. Nell’aria, ancora i rutti dei troppi bagordi.

Seccato, il direttore di Tuttosport, Antonio Ghirelli, incaricò lui. La missione gli valse un sacco di complimenti e un appunto: “l’uso della parola nazista ‘superuomo’”, come ha raccontato a Paolo Tomaselli del CorSera.

Ha scritto di tutto, per tutti.

Dallo sbarco sulla Luna di Apollo 11, vissuto a Cape Canaveral il 20 luglio 1969, al “Rumble in the Jungle” tra Mohammed Ali e George Foreman a Kinshasa, il 30 ottobre 1974; dalla strage di Settembre Nero a Monaco 1972 al Mundial bearzottiano del 1982.

Di ritorno dai Giochi di Roma del 1960 ospitò sulla sua tossicchiante Cinquecento un compagno di scuola: Livio Berruti. Aveva appena vinto i 200 metri. “E mi costò pure una multa per eccesso di velocità”.

Ha accompagnato mezzo secolo (abbondante) di sport, di vita e di giornalismo, dall’età romantica dell’inviato davvero “speciale” all’epoca pornografica dei social, età in cui gli strilli adescano e i vaffa seducono. Granata viscerale, ma amico fraterno di Giampiero Boniperti (che chiamò Gian Paolo il suo primogenito) e di Michel Platini; rispettato - e, ogni tanto, svegliato - dall’avvocato Agnelli.

Secondo Gianni Mura, “scriveva più veloce di Gianni Brera”. Gli chiedevi un pezzo - e pure chi firma, da (ir)responsabile dello sport de La Stampa, ottobre 1999-settembre 2000, lo fece - e nel giro di un’ora, massimo due, ti contattava per sapere se lo avevi ricevuto. “Di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno”.

Mi battezzò “Bonzo” perché, nell’italia del Novecento, negli uffici era vietato “non” fumare. E io mi dilettavo con la pipa. Un lapillo diede fuoco al cestone della carta - proprio lì, accanto al mio desk - e costrinse GPO a farsi pompiere.

E poi i derby. Ne rammento uno, in particolare. Al vecchio Comunale, finì 3-3. Era il 21 marzo 1971, ero fresco di sbarco. Ci furono due rigori, naturalmente. Ma per il Toro. Li trasformò, entrambi, Angelo Cereser detto “Trincea”. Rientrato alla base, chiesi lumi juventini a GPO (“Quando m’innamoro, penso sempre al Toro”, strofa rubacchiata e adattata da una canzone di Anna Identici). Mi fissò torvo: “Gobbacci, il solito c.: se ce ne hanno dati due, vuol dire che ce n’erano almeno quattro”. Però.

FRA I LIBRI PUBBLICATI, vi raccomando Il Grande Torino (scritto con Giorgio Tosatti, che a Superga perse il papà), Tutto il calcio parola per parola, Il tifo e lo schifo e La fine del campione. Ne ha dedicato uno persino al Covid che lo piegò senza spezzarlo: Gotta continua.

È stato un eterno ragazzo che ha esplorato il mondo attraverso il binocolo della penna (e poi del mouse, uffa). Ironico ed eclettico, buono e scanzonato: ma buonista, mai.

Un fuoriclasse, non banalmente il primo della classe. Lascia tre figli e otto nipoti. Lascia un foglio bianco, triste e sorpreso più di tutti noi.

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