Marco Pantani, l'ultimo chilometro


di Andrea Rossini, TuttoBici (n. 2, 2005) 

L'ultimo chilometro della sua vita Marco Pantani lo percorse a piedi, senza essere fermato neppure per un autografo, risalendo viale Regina Elena fino al residence "Le Rose", sfiorando il lungomare di Rimini. Frontiera tra l'illusione luccicante del sogno e il peso opaco della realtà. Nella città, quella notturna, il campione da due mesi tornava con regolarità a bruciarsi le ali come una falena attratta dalla luce artificiale. Stavolta però era giorno, le 13,25 del 9 febbraio, e con sé aveva solo due zainetti e un pensiero fisso: rifornirsi di cocaina. Sotto il giubbotto Iceberg, la maglia nera del destino. A bordo del taxi, lato passeggero, con il naso incollato al finestrino aveva già esplorato per due volte il viale senza individuare l'abitazione che cercava. Quella dello spacciatore.

- Non ricordo il nome dell'hotel... devo incontrare degli amici.

Amici, disse.

La Mercedes C270 nera procedeva lenta tra insegne spente e saracinesche abbassate. Mario, l'autista foggiano di 47 anni, era in attesa di un segnale per fermare la vettura. La sua giornata di lavoro era cominciata verso le 10,30. L'avevano chiamato, come accadeva a volte, dall'Hotel Jolly Touring di Milano. "C'è da portare un signore a Rimini".

Testa pelata, pizzetto. Aveva riconosciuto subito Pantani, ma senza darlo a vedere. Il campione aveva tirato un sospiro di sollievo. Almeno non era il solito che arriva e ti chiede: Allora, Pirata, quando torni in sella? Mario, evitando di fare domande ai clienti, era arrivato a possedere un autonoleggio tutto suo. Conversarono durante il viaggio, poco più di due ore da casello a casello. Commenti su auto d'epoca, Ferrari, Porsche, Harley Davidson. E impressioni sul senso di libertà che regalano i motori, quando la velocità fa schizzare l'adrenalina. Mai un accenno, neppure di sfuggita, al ciclismo.

- Mi lasci qui, vorrà dire che camminerò un po'.

Pantani raccolse dal sedile posteriore i due zainetti, pagò in contanti la somma pattuita per la corsa: 660 euro. L'autista ripartì: sullo specchietto l'uomo con il pizzetto diventava sempre più piccolo, immobile sul marciapiede, in cerca di orientamento. Pochi metri ancora e la Mercedes rallentò di nuovo: "Astolfi calzature", civico 249. Mario sorrise guardando in vetrina stivali dai tacchi vertiginosi e scarpe fosforescenti, di forme e misure stravaganti. "In quel negozio andranno le cubiste", commentò tra sé mentre pigiava sull'acceleratore. Era l'unica persona al mondo a sapere dove si trovasse Marco Pantani. Viale Regina Elena, Rimini. Approdo triste, solitario e finale di una deriva cominciata quasi cinque anni prima.

All'origine dei guai ci fu un pugno che infranse lo specchio di una camera d'albergo, a Madonna di Campiglio. Ma era nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, che Pantani aveva fatto l'impossibile per lasciare niente e nessuno dietro di sé, procurando in realtà un definitivo senso di vuoto in ognuna delle persone più care. Davanti a sé ormai gli rimaneva soltanto un tratto di viale Regina Elena, poco più di mille metri.


La sostanza

La prima volta che il dottor Giovanni Greco fu chiamato a visitare Marco Pantani, il campione era in preda alle allucinazioni. Il Giro d'Italia 2003 era finito solo da pochi giorni, ma sembrava già un secolo. Il Pirata, accanto a sé, nella villa di Sala di Cesenatico, aveva due fedeli gregari: Fabiano Fontanelli e Roberto Conti. Erano stati loro a rivolgersi, poco prima, al medico romano in servizio al Sert di Ravenna, specialista in dipendenze. Erano passati a prenderlo e avevano cercato di prepararlo a quanto avrebbe visto. I genitori avevano chiesto aiuto a Davide Boifava, il direttore sportivo, e loro si erano messi in moto.

- Sta male, pronuncia frasi senza senso. Ha passato la notte fuori, l'abbiamo riportato a casa.

Non c'era bisogno di aggiungere altro. "La caduta degli dei: psicopatologia del cocainomane e presa in carico" era il titolo del seminario tenuto da Greco a novembre nella sua città di adozione. Doveva fare solo il suo mestiere.

Per stabilire un contatto con Pantani, il medico gli somministrò 25 gocce di neurolettico associate, per compensarne gli effetti, a una compressa di un farmaco prescritto in genere ai malati di Parkinson. Il campione rientrò in sé alla svelta e riacquistò, di colpo, la lucidità perduta. Da allora, se mancava la cocaina, c'erano le pillole a sostenerlo.

- Scusate, non succederà più, promise.

Era giugno. In ballo c'era ancora la partecipazione al Tour de France. Non poteva immaginare che di lì a poco gli avrebbero sbattuto l'ennesima porta in faccia, non dopo essere tornato a sudare sui pedali per prepararsi al riscatto.

Pantani accettò di seguire i consigli del dottor Greco che divenne da quel momento il suo unico riferimento sanitario, gettò via gli ipnotici che qualche "praticone" del sabato sera gli aveva suggerito di prendere per contenere gli effetti della droga.

- Non sono un tossicodipendente, aggiunse.

È quello che dicono tutti: i presenti si scambiarono uno sguardo interrogativo. Proprio al Giro, però, aveva dimostrato di poter fare a meno della polvere bianca. Cocaina. Un termine che Pantani non riusciva a pronunciare, forse per pudore. Se proprio era costretto a parlarne la chiamava, semplificando, "sostanza".

I sogni s'infrangono con le droghe. Il dottor Greco, nelle settimane successive, ricostruì a malapena la storia clinica del nuovo paziente, attraverso i racconti dei genitori, della manager Manuela Ronchi, della sua cerchia di amici e colleghi ciclisti.

Tutto cominciò con un pugno contro lo specchio, nella camera d'albergo a Madonna di Campiglio, il 5 giugno '99.

Un "tiro" sembrava un ottimo rimedio per superare lo stress, allentare le pressioni, attenuare il dolore, combattere la depressione. Era quello che gli suggerivano, più o meno apertamente, anche certi amici, neppure troppo balordi, almeno dal lunedì al venerdì. Con le loro facce pulite, da commercianti o imprenditori, con i soldi in tasca da spendere in compagnia di modelle o commesse del centro non importa, nella Romagna dello sballo, dove le due "strisce" da sniffare nel bagno del locale di tendenza non sono l'eccezione. Se Pantani fosse nato a Palù di Giovo, come Francesco Moser e Gilberto Simoni, questa sarebbe un'altra storia.

I primi ad accorgersi che la "sostanza" stava diventando un problema per Pantani furono proprio quelli per cui non lo era. Vitelloni, più che spacciatori. Privée e champagne nei locali di Milano Marittima e dintorni, conoscenze di ogni genere nel mondo della notte.

- Guarda che stai esagerando, così ti friggi il cervello, cominciò con il metterlo in guardia il commerciante che l'aveva invitato a "provare".

- Andiamo, è tardi, domani devo lavorare.

Ma lui, niente. Allungava le chiavi dell'auto e sussurrava:

- Vattene a casa, io ancora non torno.

In famiglia cominciarono a capire. Ma dire a Marco quello che doveva o non doveva fare, non era mai stato semplice per nessuno nemmeno da ragazzino, figuriamoci in quel momento. Pareva incapace di reagire e già nell'autunno '99 non era più la stessa persona di prima: diffidente, malinconico, irascibile, ansioso.

Nei mesi seguenti cominciò ad aprirsi con la manager, con cui fino ad allora aveva intrattenuto un rapporto professionale riguardo la gestione dei diritti d'immagine. Raccontò di quanto soffrisse in profondità, di quanto il sentimento di aver subìto un'ingiustizia lo logorasse dall'interno. "Mi sono sempre rialzato, stavolta non ce la faccio", le scrisse.

A cavallo del 2000 le confidò di ricorrere, di tanto in tanto, nei momenti di disperazione, alla cocaina. I piccoli malanni che costellarono la stagione agonistica nascondevano un'altra verità. Eppure con appena venti giorni di seria preparazione alle spalle alla fine del Giro era più in forma dei migliori: il suo contributo alla vittoria del compagno di squadra Stefano Garzelli fu determinante. I duelli, anche verbali, con Lance Armstrong al Tour, lasciarono ben sperare, anche se la malinconia rabbiosa del campione faceva trasparire che la vera lotta non si svolgeva lungo le strade francesi, ma dentro di sé.

Il 2000 fu anche l'anno della sentenza di Forlì, originata da un'indagine del pubblico ministero torinese Raffaele Guariniello: l'11 dicembre il giudice Luisa Del Bianco inflisse al campione tre mesi (con la condizionale) per frode sportiva. La decisione, quasi un anno dopo, venne ribaltata in appello a Bologna: Pantani uscì con il certificato penale pulito da tutte le inchieste svolte nei suoi confronti da ben sette procure d'Italia. Solo per difendersi spese qualcosa come ottocentomila euro.

Da allora però divenne impossibile per chiunque cercare di contraddirlo ogni volta che parlava di persecuzione. Ammesso che ci fosse qualcuno disposto a dargli torto.

L'anno successivo la situazione si aggravò. Pantani stesso, che al padre rispondeva di voler risolvere i suoi problemi da solo e a modo suo, cominciò a rendersi conto di aver bisogno di un aiuto concreto per liberarsi dalla droga.

Nel novembre 2001, dopo una stagione agonistica da dimenticare e con in testa l'eco delle relazioni pericolose in riviera, Pantani si rivolse a Fabrizio Borra, amico e fisioterapista di Forlì che lo aveva rimesso in piedi dopo il grave incidente del '95. Tutta la squadra fu investita della questione e fece quadrato per cercare di far uscire il Pirata da quella brutta faccenda. I medici della società interpellarono un esperto di tossicodipendenze, il dottor Mario Pissacroia, con studio professionale a Firenze.

Il responso fu chiaro: era importante non allontanare Pantani dalla bicicletta. Mantenerlo nel pieno dell'attività agonistica l'avrebbe aiutato a superare il disagio psicologico senza provocare alcun contraccolpo dal punto di vista fisico.

La preparazione al Giro 2002, quell'anno, avvenne sotto sorveglianza, non soltanto medica, da parte della squadra e della manager. Attorno a Pantani continuarono a circolare comunque "parassiti" non legati all'ambiente. Capì quando ormai era troppo tardi che avrebbe fatto meglio a stare alla larga da loro, ma altri si attaccarono alla sua fama e ai suoi soldi.

Il lungo ritiro non restituì il campione di un tempo alla più importante corsa a tappe italiana, ma sembrò contribuire a rimettere in carreggiata l'uomo.

Nel giorno stesso del ritiro del Pirata, ai piedi della Marmolada, a due giorni dalla fine della corsa, giunse la notizia del rinvio a giudizio davanti al giudice di Trento (altra assoluzione, nell'ottobre 2003, perché il fatto non era previsto come reato). Il peggio doveva ancora capitargli.

Con effetti più devastanti dell'auto, della jeep, del gatto che tra il '95 e il '97 gli avevano causato i più gravi incidenti subìti in carriera, Pantani fu infatti travolto a sorpresa da una squalifica di otto mesi.

Nel mirino c'era la vicenda della siringa con residui di insulina trovata l'anno prima a Montecatini nella camera 401 del Grand Hotel Francia e Quirinale, una delle stanze occupate dalla squadra del Pirata durante il Giro 2001.

Gli indizi in mano alla Federciclismo per attribuire al Pirata l'uso della sostanza illecita furono giudicati da tutti gli osservatori labili e insufficienti per arrivare alla condanna. La commissione federale d'appello, massimo organo della giustizia sportiva, revocò infatti la squalifica per "non aver commesso il fatto". L'Unione Ciclistica Internazionale intervenne, però, per far valere comunque il periodo di stop, sebbene con uno sconto di due mesi.

Per Pantani rappresentò il crollo. Dopo tanti sforzi gettò la spugna. Tornò alle cattive compagnie, un eufemismo. Si tuffò nella polvere bianca. In casa ormai i genitori sapevano quale spiegazione darsi di fronte a bottiglie bucate, pezzi di carta stagnola, candele consumate, vuoti di bicarbonato, nascosti alla meglio nei posti più strani. Aveva preso a fumarla, la sostanza. Ce ne voleva sempre di più e gli effetti diminuivano.

Paradisi artificiali, illusori sogni luccicanti, per evadere da un'opaca realtà: il "sistema" che lo ributtava nel fango proprio mentre a fatica provava a risollevarsi. Sempre più convinto dell'esistenza di un complotto ai suoi danni era nauseato da tubolari e strategie di corsa, ma soprattutto dagli ipocriti e dagli sciacalli. Ed era una preda all'ambivalente sentimento che lo legò alla bici negli ultimi tempi, o forse da sempre fin da quando nonno Sotero gliene regalò una: né con te, né senza di te.

- Non cercarmi più, disse alla manager verso la metà di giugno, e sparì dalla circolazione.

Dopo ferragosto però tornò a farsi vivo con Manuela Ronchi. Era a pezzi. 

- Sono in crisi, non ce la faccio ad uscirne.

La donna, assieme al marito, adottò l'unico metodo che dava dei frutti: allontanarlo da Cesenatico. Ormai per lei non era più questione di lavoro. Pantani, nel '98, l'aveva scelta a naso, nonostante le perplessità di un collaboratore che gli fece notare:

- Nel biglietto da visita non ha neppure scritto dottoressa. 

- La fiducia è una questione di sensazione, rispose.

L'aveva vista per la prima volta assieme ad Alberto Tomba, e la chiamò qualche tempo dopo sapendola a Riccione per incontrare Laura Pausini. Gli aveva fatto una buona impressione. Fu grazie alla Ronchi che Pantani modificò la sua immagine trasformandosi nel Pirata, con tanto di bandana e orecchino, quest'ultimo mal digerito dal padre tradizionalista.

Non sbagliò la scelta della manager quando era una miniera d'oro, ma la sua consulente si rivelò ancora più preziosa davanti alle difficoltà. Fu l'affetto e non l'interesse a spingere Manuela Ronchi con il marito Paolo a portare Marco in vacanza con loro in Norvegia, nell'autunno 2002.

Lo scopo nascosto era quello di far incontrare Pantani con Renato Da Pozzo, alpinista, uno degli uomini di avventura italiani più conosciuti al mondo. Da Pozzo, nel profondo nord teneva lezioni agli atleti di sport estremi, oltre a far parte del prestigioso gruppo di campioni cui la Ronchi, in quel periodo, curava l'immagine attraverso la sua Action Agency: da Max Biaggi ad Antonio Rossi, da Giovanni Soldini ai calciatori Francesco Coco, Sebastian Frey, Mohamed Kallon e Cristian Abbiati.

Il colloquio tra il "guru" dell'alpinismo e Pantani durò più di otto ore. Da Pozzo parlò della sua attività, e dell'esplorazione moderna come scoperta essenzialmente interiore. Suggerì al ciclista il concetto che l'attività sportiva, agonistica, non va intesa come un fine, ma un mezzo per perseguire l'interezza, il miglioramento non di prestazioni, di vittorie, ma di consapevolezza e quindi saggezza. Pantani ascoltò con attenzione, ma da uomo di mare, non si volle trattenere un minuto di più per farsi "addestrare" in Lapponia dall'alpinista-filosofo e chiese di rientrare in Italia. I tre - Manuela Ronchi, il marito e Pantani - rimasero invece in Norvegia, da turisti. Da lì, su preghiera del campione, si trasferirono in Danimarca.

Nelle due settimane a Copenhagen, Pantani incontrò la sorella di Christina Jonsson, la ragazza che nei sei anni precedenti era stata la sua fidanzata.

Christina aveva rotto la relazione durante l'estate "nera" e stavolta la cosa, dopo tante fratture e riavvicinamenti, sembrava definitiva. Il campione non riusciva a farsene una ragione. Non riuscì a dimenticarla nemmeno dopo, non ci riuscì mai.

In ginocchio su ogni fronte, ma rafforzato dall'aver tenuto a distanza la droga, Pantani tornò a cullare il sogno di tornare se stesso, di risollevarsi dalla polvere. La Ronchi rimase accanto a Pantani anche in Italia, per altre due settimane, a Saturnia in Maremma, nella tenuta dell'atleta. La manager da una parte toccò le corde giuste con l'amico-cliente, e dall'altra cominciò a lavorare nel ciclismo perché si costituisse attorno a Pantani un gruppo di persone sincere, pronte a credere in lui e a dargli fiducia, ma capaci al tempo stesso di non fargli sentire il peso delle aspettative.

Tra alti e bassi, compresa una ricaduta nella depressione proprio a Saturnia forse dovuta alla cocaina, in lui tornò la voglia di essere un tutt'uno con la bici, quindi cominciarono i contatti per formare una squadra. 

La decisione di tornare a correre la prese tra dicembre e gennaio, in Grecia. I genitori erano riusciti a convincerlo ad andare con loro e una coppia di amici, in camper, per una battuta di caccia. Con il fucile in spalla, fianco a fianco con papà Paolo come ai vecchi tempi, Pantani si sentì di nuovo pronto per l'agonismo. Il padre ebbe un ruolo in quella scelta e ne fu orgoglioso, quello che dicevano i medici lui lo sentiva a pelle:

- Marco, sei arrabbiato con la gente che ti ha distrutto nel mondo del ciclismo, e hai ragione, ma è solo quel mondo che può farti tornare a star bene.

Romano Cenni, patron della Mercatone Uno, gli spalancò le braccia. Davide Boifava mise al suo servizio esperienza e buon senso. Quindi tutti in Spagna, ad allenarsi, in attesa del via libera dei giudici sportivi del Tribunale amministrativo di Losanna sulla ripresa dell'attività. Il tira e molla sui tempi della squalifica si chiude il 13 marzo. Aveva perso un anno. Dall'albergo spagnolo, dove si trovava Pantani chiamò la Ronchi:

- Sono felice, anche se avrei voluto cominciare prima, adesso possiamo fare dei programmi.

Pantani le descrisse le sensazioni che dopo tanto tempo era tornato a provare in bici. E non si riferiva solo ai mesi che era stato senza mai montare sul sellino.

Le aggiunse che durante l'allenamento, otto ore al giorno, i pensieri si scioglievano, tutto scorreva veloce ed esistevano solo lui e i pedali. Scacciava così i fantasmi della "sostanza", di Christina, del doversi ripresentare sapendo di ripartire da zero. L'equilibrio era fragile, la sensibilità scoperta a future ferite, ma la Ronchi lo tranquillizzò:

- Ti basterà un successo, uno solo, per darti fiducia: vedrai, tornerai quello di prima.

Anche i genitori lo incoraggiavano ogni giorno, e si abbracciavano tra loro al pensiero di aver ritrovato Marco. Tornò a correre il 26 marzo 2003 sulle strade di casa, in Romagna, per la "Settimana internazionale Coppi e Bartali". La prima tappa partì da Riccione. Pantani era emozionato, quasi come al debutto.

Nella prima semitappa a cronometro del pomeriggio un'ammiraglia contromano rischiò di investire il Pirata che urlò tutta la sua rabbia all'autista prima di tagliare il traguardo affaticato, ma soddisfatto. Fu però dopo l'ultima tappa, il 30 marzo a Sassuolo, che Pantani tornò a sorridere. Si impegnò nello sprint e sfiorò il successo. Vinse Ivanov, Pantani giunse secondo. Non accadeva da quasi tre anni, il 16 luglio 2000: Courchevel, Tour de France, l'ultimo dei 36 trionfi in carriera.

La gente era in delirio.

- È tornato il Pirata? - commentò all'arrivo - È presto per dirlo. L'ultimo podio affonda nel tempo, ma quando uno ai podi è abituato pensa sempre alla vittoria e il mio errore stavolta è stato quello di volerla troppo presto: sono partito per la volata quasi con entusiasmo, con la voglia di esplodere, volevo arrivare al traguardo prima di ogni altra cosa, mi spiegò. Ora il morale c'è, ma le batoste forse arriveranno, quindi meglio non illudersi. Torneranno i momenti difficili e questo mi insegnerà a tener duro, a soffrire, a non mollare mai. Perché nel ciclismo non è detto che vinca il più forte, bensì il più tenace, quello che sa stringere i denti più di altri.

Lo strapparono dall'abbraccio degli amici, quelli veri e quello fasullo, per riportarlo in Spagna. A marcarlo stretto, in previsione del Giro 2003, fu chiamato Daniel Clavero, gregario con moglie psicologa.

Proprio quando tutto sembrava filare liscio, il campione tornò in fuga. Rientrò in Italia ad aprile, ma un po' prima del previsto. Disse di aver ricevuto una telefonata da Christina, trascorse una notte fuori, soliti giri per locali, e quando lo ritrovarono fu chiaro che bisognava ricominciare tutto daccapo. Dovettero scuoterlo per farlo tornare in sé, poi lo condussero per mano nelle settimane successive fino alla partenza del Giro 2003. L'ultimo.

- Sono stati tre anni tremendi - dichiarò alla vigilia, disquisendo sul concetto di autostima - ma saprò rialzarmi.

Quella vittoria che avrebbe potuto salvarlo non arrivò. Andò vicino a ottenerla nell'arrivo alle Cascate del Toce, ma nessuno gli fece sconti a cominciare da Simoni, maglia rosa, che andò a riprenderlo.

Pantani chiuse al quattordicesimo posto in classifica generale: senza una sfortunata caduta sarebbe potuto rientrare addirittura nei primi cinque. Un'impresa per i suoi sostenitori e per la critica, ma non per lui, rigenerato dal punto di vista fisico, ma non ancora da quello psicologico.

Non era riuscito a battere se stesso. Stare nel gruppo, in corsa come nella vita, non faceva per Pantani. Il dono del talento immenso, sprecato poeticamente come in un artista maudit, lo faceva grande e infelice. Diverso dagli altri. Strappandosi di dosso il pettorale, sentì che gli mancava qualcosa. Dovette credere che a mancargli fosse la cocaina.

"In salita vado forte per abbreviare l'agonia". Quando i signori del Tour, ingrati, rifiutarono la sua iscrizione all'edizione 2003, Pantani vide davanti a sé la strada impennarsi. Una volta al giornalista Gianni Mura che gli chiedeva perché andasse tanto forte in salita, rispose, dopo aver riflettuto un momento:

- Per abbreviare la mia agonia.

Tecnicamente Pantani è stato ucciso dalla cocaina: un'intossicazione acuta dovuta a un'abnorme assunzione, come spiegò nelle conclusioni dell'autopsia il professor Giuseppe Fortuni. Il medico legale escluse anche una possibile "volontà autosoppressiva". 

Il padre, vedendo il figlio ridotto in uno stato preoccupante, chiamò il medico.

- Dottor Greco, Marco deve ricoverarsi da qualche parte, dobbiamo fare qualcosa per disintossicarlo.

Lo specialista individuò la struttura più adatta nella casa di cura privata " Parco dei Tigli", località Treponti, frazione di Villa di Teolo (Padova). Fuori la dolcezza dei Colli Euganei, dentro la durezza della battaglia contro nemici difficili come droga e depressione.

Solo con uno stratagemma papà Paolo riuscì a trascinarsi dietro il figlio che si ritrovò ricoverato senza quasi accorgersene. Il dottor Greco non sapeva che Pantani, almeno fino al fatto compiuto, non era consenziente. Il tutto avvenne nella massima riservatezza, garantita dalla clinica che nascose la presenza del campione quando cominciarono a circolare le prime indiscrezioni.

Lo staff del campione negò l'evidenza: rendere pubblico il problema della droga avrebbe aperto gli occhi a tutti sui motivi del declino dell'atleta e sulle asprezze dell'uomo negli ultimi anni, come sui pali abbattuti dopo spettacolari carambole alla guida della Ferrari o della Mercedes. Si scelse il silenzio, per un malinteso senso di protezione o forse davvero per non spezzare un equilibrio tanto precario...

La manager andò a trovarlo per convincerlo a rimanere almeno per il periodo necessario al trattamento e sembrò riuscirci. Il campione si tranquillizzò, comprese che era tempo di svolte radicali, progettò con l'amica un futuro di vita più stabile. Ma una settimana dopo il telefono della Ronchi squillò di nuovo.

Era Pantani.

- Ti prego, corri qui, è successa una cosa grave, poi ti spiego. La manager fu informata prima da Marco, poi dai dirigenti della clinica che il Pirata era stato sorpreso a consumare droga assieme al suo compagno di stanza, un giovane paziente padovano. Il campione, secondo quanto ricostruì in seguito l'inchiesta svolta sull'episodio dal pm Linda Arata della procura di Bassano del Grappa, si era rivolto al ragazzo veneto lontano dagli sguardi degli infermieri...

...Una volta a casa, però i genitori non avevano alcun modo, a parte le prescrizioni mediche, per frenare le ricadute di Marco, vittima di una profonda depressione. Fu quell'estate che Pantani, spinto dal padre, si avvicinò a un amico sincero, suo coetaneo, Michael Mengozzi di Predappio, imprenditore della notte con alle spalle l'azienda agricola del padre Guerrino...

I due si erano concosciuti nel '92. Pantani andò a festeggiare la sua vittoria al Giro d'Italia dilettanti nel locale gestito all'epoca da Mengozzi, " il Controsenso", la discoteca più esclusiva di Forlì. La simpatia tra loro fu istintiva e l'amicizia si consolidò nel tempo tra cene e uscite in barca... 

La sua era un'abitudine. Riempire biglietti o interi fogli che spuntavano dappertutto, in casa come nelle camere d'albergo quando era in ritiro. Oltre che cantare, il suo pezzo forte era "Gente di mare", amava scrivere, lui che aveva lasciato gli studi dopo la terza media. Dovunque gli capitasse, in qualsiasi condizione si trovasse. Anche quando era sotto l'effetto della cocaina. Tra le righe, però, sia pure a volte deformate dallo stordimento, sia pure sgrammaticate, i messaggi in bottiglia del Pirata conservarono fino all'ultimo l'intima coerenza del personaggio. Un argot disseminato di frammenti poetici.

"Penso non corro più in bici... La mia vita è sacra e solo chi si ribella si ama... Christina hai visto che cosa sono un piccolo che come cade si vergogna... la verità sta nella vergogna... come si fa a non vergognarsi di essere libero di star a casa con la vita senza perdere la paura... si può cantare per la voglia di star male... Questa è veramente la cosa più grande che la mia vita mi ha sottoposto. Non voglio fare la vittima ma tutt'altro. La bicicletta è la cosa più magica che si possa provare dopo l'orgasmo insomma. Sono stati anni belli e ricchi di colpi di scena che hanno fatto di me un uomo. Ma nella vita non c'è nulla di nostro volere è per il destino il mio carattere di chi perdere la vittoria sempre con paura di niente. Ma il mio orgoglio si è inchinato a ciò che purtroppo gli uomini comandano, non sono stato trattato onestamente, e ho sofferto la mia debolezza i sentimenti che ti fanno spiccare il volo, il mio volo era ormai negli ultimi anni sofferente e si è inchinato in uno dei tanti sfoghi distruttivi per farsi allontanare da cose che non mi hanno fatto amare la bici ma i tanti mostri che mi hanno assalito mi hanno fregato. Non voglio entrare in dettagli banali ma se non ti vuoi più bene è pieno di mezzi per distruggersi e io ho fatto miracoli con i forti problemi sentimentali e legali ma soprattutto morali. Ma la cosa più bella che ho voluto era diventare un campione già a 14 anni mi promettevano un onore nazionale in senso positivo.

Ho fatto una bella carriera e non posso che ringraziare tutti i sensibili che sanno come è difficile dopo dieci anni di lotte e vittorie arrembanti ma devo farlo per ritrovare il coraggio di trovare gli stimoli per piccole soddisfazioni in vita da borghese: Dolore e soddisfazioni che solo la bici mi lasciano. Ma date molto attenzione a questo sport che insegna a vivere...".

A fine agosto dovettero di nuovo andarlo a recuperare a Saturnia. Si era barricato in una stanza e non apriva né alla madre, né al dottore. Manuela Ronchi stava per diventare mamma e non poteva più stare alle costole del suo campione. Fu Michael, il pomeriggio successivo al suo arrivo, a vincere le resistenze di Pantani...

A Trivella di Predappio, in una grande casa in campagna, Marco sembrò ritrovare un po' di serenità. All'inizio la convivenza si rivelò più difficile del previsto. Pantani cercava di sfuggire in ogni maniera al controllo di Michael: in bici, in macchina. Ma lui era sempre pronto a riacciuffarlo prima che trovasse il modo di rifornirsi di droga...

Ricominciò a esprimersi, senza ansie, sul futuro. Il dilemma tornava a farsi avanti: smettere o ripartire? Il padre averebbe voluto che continuasse a correre, e così la Ronchi che intanto manteneva i contatti giusti. Il Pirata, un po' sovrappeso, accarezzò l'idea, ma prese in considerazione la possibilità di comprarsi un casale a Bertinoro e mettersi a produrre vino...

A metà novembre il campione chiese di poter uscire qualche volta da solo, anche per dimostrare i suoi progressi.

- Non posso girare per tutta la vita con una guardia del corpo.

In una settimana uscì tre volte.

L'ultima sera avvertì che sarebbe rimasto a dormire da Nevio, un amico di Igea Marina che gli aveva fatto anche da autista. Michael si infuriò. Chiamò la madre di Pantani, ma neppure lei riuscì a convincerlo a tornare a Predappio.

Il giorno dopo prese il minimo indispensabile da casa di Michael, infilò tutto in una ventiquattro ore, e si trasferì a Milano dalla Ronchi.

La neo-mamma aveva organizzato un incontro con il ciclista Giovanni Lombardi. I due ragionarono sul progetto, poi naufragato, di costituire una nuova squadra per riprendere l'attività...

L'entusiasmo del Pirata fu tale che volò subito a Madrid con Lombardi per discutere i dettagli. Dalla Spagna però Pantani partì due giorni dopo alla volta di Cuba. Portò con sé la bicicletta e disse al collega che di lì a poco si sarebbero rivisti in Argentina per continuare assieme la preparazione.

Michael seppe dalla Ronchi del viaggio e temette subito il peggio. Dopo una settimana ricevette la telefonata dal padre che lo supplicava di andare a riprendere il figlio all'Avana perché era nei guai...

Soccorso da Michael, il Pantani che tornò in Italia era di nuovo un uomo precipitato nell'incubo, pronto a smarcarsi da tutti alla prima occasione.

Toccò di nuovo ai genitori tenerlo d'occhio, ma nonostante l'impegno Marco tornò a far uso di sostanze stupefacenti. Oltre loro, il figlio incontrava da qualche tempo solo una ragazza russa, conosciuta a ottobre durante una festicciola a casa di Michael: i sospetti ricaddero su di lei. Mamma Tonina affrontò la donna in visita nella villa di Sala di Cesenatico, Pantani ne prese le difese. La discussione si accese, giunsero i carabinieri. Al loro arrivo però trovarono solo la disperazione dei familiari di Pantani: padre, madre e sorella Manola.

Il Pirata, sempre più chiuso in se stesso, fu accolto di nuovo da Michael. Trascorse il Natale in compagnia della famiglia dell'amico. Per la notte del 25 dicembre chiese di poter ospitare la ragazza russa e Michael acconsentì.

La sera dopo partì con lei verso Rimini. Quello che andava a cercare, Michael lo scoprì due giorni dopo, il 27 dicembre. Quando accorse assieme al dottor Greco nell'albergo di Miramare dove Pantani aveva preso alloggio. La russa era scappata, spaventata dalle sue stranezze. Nella stanza c'era polvere bianca ovunque...

Non c'era più tempo da perdere. Il 30 dicembre il medico, con in mente la scena dell'albergo, parlò chiaro ai genitori convocati nel suo studio di Ravenna. Ripercorse con loro le tappe dell'iter terapeutico dei mesi precedenti, li mise a conoscenza del fatto che bisognava agire in modo più drastico. Ormai Pantani aveva verso la cocaina un atteggiamento compulsivo: sempre alla disperata ricerca della sostanza, dagli effetti sempre minori e spesso neppure piacevoli: senso di insicurezza, agitazione, irritabilità, stanchezza. Depressione...

Il medico suggerì delle misure di emergenza ai genitori.

- Non è più il caso di opporsi a interventi coatti. Michael va bene, ma va affiancato da una figura intermedia, un educatore con una formazione specifica, capace di supportarlo nell'azione di assistenza e contenimento. Va presa in seria considerazione l'ipotesi di un trattamento sanitario obbligatorio, un ricovero forzato, così come la possibilità di ricorrere giudizialmente per l'inabilitazione di vostro figlio...

Il punto fu fatto a casa di Michael il 3 gennaio. Tutti attorno a un tavolo, la Ronchi, il medico, i genitori. Lo scopo era quello di convincere Marco a ricoverarsi di sua volontà in una struttura, con un programma di recupero serio. Sul piatto furono poste delle possibili soluzioni.

- Non potete costringermi. Voglio solo essere lasciato in pace...

La serata del 13 gennaio andò peggio di quanto potesse immaginare. Attorno al tavolo dell'agriturismo di Predappio prenotato per l'occasione c'era in tutto una dozzina di persone, Michael, Gianni l'accompagnatore delle dive, Erik l'amico di Michael, Kappa, Jumbo il dee jay, Simone, Giuseppe il pittore, Carlo il milanese, Michael il fratello minore di Jader, Andrea l'ex ciclista, un altro paio di fedelissimi. Marco si presentò in condizioni precarie. Non era del tutto in sé, ed era giù di morale. Allora Pirata, quando torni? Fine dei brindisi...

La mattina del 14 gennaio sul cellulare del dottor Greco piovvero le richieste d'aiuto di Michael e dei genitori, da Predappio. Pantani stava delirando.

- Ci vuole un TSO, ribadì il medico intenzionato a rivolgersi al Servizio diagnosi e cura dell'ospedale di Forlì.

La scelta di far indossare la camicia di forza a Marco spettava a loro. A Fernando, detto "Paolo", ex idraulico nativo di Sarsina, e a mamma Tonina, piadinara originaria di Rimini. Una coppia vissuta nell'adorazione del loro ragazzo che donò loro soddisfazioni, lustro e ricchezza.

Il babbo dal carattere aspro, ma che per assomigliare al suo Pirata ad un certo punto arrivò a radersi i capelli e a farsi crescere il pizzetto. La mamma, per cui Marco era un idolo già quando aveva i calzoni corti e la goccia al naso.

Alla camicia di forza dissero no. Marco non gliel'avrebbe perdonata.

Pantani si trasferì a Milano, Michael non lo rivide più. Spuntò un bigliettino indirizzato a lui, scritto da Marco durante la convivenza. Un addio.

"Ti devo ringraziare per la nostra costanza per il mio problema. Forse sarò un po' stupido, ma non sei stato contro di me, ma il mio problema.

La depressione è tremenda e si fa anche sbagli con sostanze, medicine e sentimento. Ma a Saturnia quando hai "aperto" la porta di camera mia, hai dimostrato carattere so che non è facile neanche per te ma sei più forte di molti e ti stimo conoscendoti davvero.

Tu non so se sai chi ero in grinta e intelligenza. Si sbaglia tutti nella vita ma il mio sentimento di sincero e furbo amico sa che devi solo essere con i tuoi sinceri riconoscimenti che ti ho creduto anche nel più difficile e tuo affetto per me. Ma non ti devi sentire in colpa per non essere stato capace di convivere con il più fiero e furbo, ma debole alle mie verità. Se puoi fare un giorno con le nostre sincere volontà. C'è sempre una strada fra uomini ma è dura. Ti stimo per la tua forza, ma non ti devi preoccupare, ci passerà, ma la mia verità la trovo".

Tutto o niente

A Milano, il 16 gennaio 2004, arrivò un Pantani spossato. I primi giorni delle due settimane in cui si trattenne nell'abitazione della Ronchi si alzò dal letto solo per mangiare.

Poi, senza mai smettere il pigiama, cominciò a trascorrere qualche ora davanti alla televisione. Divano, telecomando, compresse. Smorfie e sorrisetti al piccolo. Con l'aiuto dei medicinali e del calore di una famiglia rallegrata dalla presenza del bambino di pochi mesi che lo inteneriva, Pantani dette segni di ripresa. Fu allora che la manager affrontò l'argomento.

- Non c'è un'altra soluzione, devi ricoverarti.

Silenzio.

- Hai capito?

Rifletté per un momento, come quella volta che rispose a Gianni Mura sul perché andasse così forte in salita. Poi fece:

- In ospedale si va per morire. Se torno in clinica faccio la fine del mio amico "Chaba" Jimenez.

Il dottor Greco sapeva però che Pantani aveva imboccato una china pericolosa, un precipizio senza un intervento clinico. Prese contatti con il dottor Furio Ravera, primario e condirettore della casa di cura privata Le Betulle di Appiano Gentile (Como), struttura specializzata nel trattamento delle dipendenze.

La Ronchi strappò al Pirata la promessa che avrebbe almeno incontrato lo specialista, per poi decidere assieme a lui, se era il caso di entrare in clinica.

Il padre, al telefono, confermò che il figlio negli ultimi venti giorni aveva ritirato dai suoi due conti personali ventiduemila euro. L'ultimo prelievo, proprio durante il suo ultimo breve soggiorno a casa. Papà Paolo, come procuratore, aveva accesso ai movimenti bancari del figlio e quello era uno dei sistemi per tenerlo sotto controllo, ma al contrario di quanto si disse, non aveva alcuna possibilità di frenare quella costante emorragia.

La Ronchi riuscì a farsi consegnare la cocaina che Pantani aveva con sé e la getto nel water. Buttò via anche la bottiglia forata utilizzata dal campione per farsi di crack. Ne conservò dell'altra da qualche parte. Più tardi, in pieno delirio paranoico, inveì contro la coppia in maniera aggressiva. Pantani adesso oltre che a se stesso cominciava a far paura anche agli altri.

Mamma Tonina e papà Paolo andarono di corsa a Milano.

Pantani era fuori di sé. Disse di non aver alcuna intenzione di andare in clinica, che l'unica cosa che aveva voglia di fare era restare a casa della Ronchi, senza condizioni, né imposizioni.

- Non faccio del male e non dò fastidio a nessuno, lasciatemi in pace.

Stavolta intervenne il marito della manager a ricordargli che quella era anche casa sua e nessuno aveva il diritto, là dentro, di fare i propri comodi. Rinfacciò ai presenti che tutti gli dovevano qualcosa, disse cose che non pensava, un po' per la rabbia, un po' per rendere più profondo il solco. La Ronchi era sotto choc. In atteggiamento di sfida, il Pirata disse che se ne sarebbe andato, che non aveva mai preso in considerazione nemmeno per un momento l'idea di farsi "rinchiudere" anche perché non voleva rinunciare alla cocaina.

- Voglio vivere a modo mio.

Vivere a modo suo significava una cosa sola: morire.

Pantani fece le valigie, ma la discussione non finì a parole. Prima di andarsene verso la definitiva rovina avrebbe dovuto affrontare il padre, sulla porta. E così avvenne.

- Se non vuoi ricoverarti allora torni a casa con noi, disse l'uomo a Marco.

Il litigio continuò sul pianerottolo del lussuoso condominio, sulle scale. La valigia rotolò sui gradini, si aprì. I vicini accostarono le orecchie alla porta quando sentirono le urla. Mamma Tonina si sentì male. Svenne. Per rianimarla intervenne l'ambulanza. Il padre, con un dolore al cuore e il Nokia Communicator strappato al figlio dalle mani, vide la nebbia della notte milanese inghiottire Marco. Lui se ne andò senza bagaglio e senza voltarsi indietro.

Benvenuti al Touring. Sabato 5 giugno '99. Hotel Touring di Madonna di Campiglio. 

Tutto comincia in una stanza ad angolo del secondo piano del grosso chalet a tre stelle.

Sabato 27 dicembre 2003. Hotel Touring di Miramare (Rimini). 

Riscaldamento al massimo. Tapparelle abbassate. La russa che ha trascorso la notte con lui lo abbandona ai suoi fantasmi. 

Sabato 31 gennaio 2004. Hotel Jolly Touring di Milano. 

Pantani arriva senza prenotazione poco dopo le 23,30. "Mi fermo per qualche giorno". Rimarrà fino al 9 febbraio. "Non voglio essere disturbato da nessuno". Si è appena lasciato alle spalle, assieme al telefonino e alla valigia, i genitori e la manager. Entra nella camera 344, abbassa le tapparelle. Alza il riscaldamento. Prende il telefono. La vita pedala all'indietro. Alle estati passate nel chiosco della mamma, alla ragazzina milanese, anche lei Cristina, che veniva tutti gli anni con i genitori. Marco era un giovanotto piccolo di statura, magro e con le orecchie a sventola coperto dai ricci. Felice e sconosciuto. Lei sorrideva. A lui batteva forte il cuore. Mezzanotte è passata da un pezzo.

- Pronto, Cristina, sei tu? Sono Marco...


Un altro addio

Cristina, la milanese, intuì subito cosa provava per lei Marco appena entrò a far parte della compagnia estiva che si ritrovava al chiosco di mamma Tonina. Si conobbero quando avevano 12-13 anni. Lei trascorreva ogni anno le vacanze con i genitori, a Cesenatico. Marco era sempre lì ad aspettarla. Aveva un debole nei confronti di Cristina. Lei provava simpatia, ma non ricambiava con lo stesso rapporto. Fu il suo primo amore anche se non ebbero mai una relazione sentimentale. Dopo la maturità la ragazzina, al contrario del fratello che mantenne qualche contatto, si dimenticò di Cesenatico e iniziò a trascorrere le vacanze altrove, senza i genitori.

Marco chiese sempre notizie di lei. Quando vedeva un amico comune le mandava i saluti e poi s'informava se le erano arrivati. Una decina di anni fa s'incontrarono a un matrimonio.

- Sai corro in bicicletta, vado forte.

- Ah sì?, io vado all'università.

Da allora non si videro e non si sentirono più fino al 29 gennaio 2004.

La conversazione durò un'ora. A parlare fu soprattutto lui. E allora Cristina capì.

Marco rimpiangeva l'infanzia, l'adolescenza. Avrebbe voluto ripartire da lì...

- Avevamo tutto, stavamo bene, ricordi?

Ricordi che per Cristina erano lontani, sepolti, e per Marco vivi e presenti. Lei lo invitò a telefonare l'indomani.

- Non perdiamoci di vista, disse Cristina.

L'amica d'infanzia non riusciva a capire che cosa frullasse nella testa confusa dell'interlocutore.

- Va bene, grazie, rispose Marco.

Non chiamò più. Era un altro addio. 


Cocaina

Pantani imbarazzato per quanto era accaduto la sera prima sulle scale, al mattino impresse un messaggio vocale sulla segreteria della manager.

- I cagnolini ritornano, è la frase.

Poi in piena crisi d'astinenza, venerdì 6 febbraio chiamò il dottor Greco.

- Sono stati giorni terribili, sto malissimo, ho bisogno delle medicine per proseguire la terapia.

Pantani gli rivelò di trovarsi ancora a Milano, all'Hotel Jolly Touring, e chiese al medico di rivolgersi lui direttamente alla Ronchi perché gli procurasse anche dei vestiti.

Greco convinse la manager a chiamare Pantani in albergo. Aveva ancora una volta bisogno di lei. Al telefono il Pirata chiese scusa, s'informò sulle condizioni della madre e s'impegnò a chiarire tutto anche con i genitori per dimenticare in fretta la furibonda litigata sulle scale.

Voleva incontrarla, ma lei pose una condizione.

- Ci incontreremo quando ti sarai deciso a ricoverarti. 

Il giorno dopo, sabato 7 febbraio, la Ronchi passò dall'hotel. La donna fu di parola: rimase in macchina. Alla reception si presentò il marito che consegnò le medicine, abiti, l'occorrente per radersi e una lettera della moglie indirizzata al campione.

"Costruire delle vere amicizie nella vita costa molta fatica ed è per questo che si soffre quando succede quello che è accaduto sabato - lesse Pantani nella sua stanza - Io ci provo a dimenticare quello che mi hai detto e hai detto a Paolo. Spero di riuscirci perché sono ancora molto turbata...".

- Non mi ricovero. Il mio problema non è la sostanza, ma il bisogno di sentirmi adulto, libero di fare quello che voglio, anche di sbagliare, ma senza essere sempre pressato dagli altri...

- Non mi troverai, vado a Saturnia, se ho bisogno ti chiamo. 

Forse non se ne sarebbe andato davvero se in albergo non gli avessero fatto presente che dal giorno successivo non avrebbero più potuto mantenergli la camera. Il Pantani solitario, un po' strambo e assente, non meritava più i trattamenti di riguardo di un tempo. La Ronchi era in arrivo di lì a poco, per condurlo in clinica. A Rimini, come ogni due lunedì, c'era invece chi lo stava aspettando per vendergli cocaina. Guardò l'impiegato e impresse una nuova accelerazione alla sua andatura:

- Prepari il conto e mi chiami un taxi, me ne vado.

All'autista, piuttosto silenzioso, disse solo:

- Mi porti a Rimini.


Mamma coraggio

Mamma Tonina si lasciò convincere a tornare in Grecia ai primi di febbraio 2004, con il camper, come l'anno prima quando al seguito c'era anche Marco. Dopo quanto era accaduto a Milano - il litigio, il rifiuto a lasciarsi aiutare - i genitori si erano rivolti ad Andrea Muccioli, responsabile della comunità di San Patrignano.

Muccioli prospettò loro una possibile soluzione alle difficoltà di Pantani, ma come ogni operatore del settore informò i genitori che la scelta spettava solo al diretto interessato. Prima di decidersi a entrare in comunità un tossicodipendente, spiegò, deve sentire di aver toccato il fondo.Individuò i numeri sospetti, li incrociò con quelli che si era annotata in un'agendina nelle settimane precedenti, si consultò con il marito che aveva cercato di carpire i segreti del cellulare del figlio anche nel corso della breve sosta a casa per prelevare i soldi.

Il "patto" tra gli spacciatori e la colletta degli amici per placare l'avidità dei loschi figuri sono leggende belle da raccontare ma senza riscontri nella realtà: il "cordone sanitario" attorno al figlio lo avevano steso lei e Michael.

Ostinazione e coraggio non sono stati sufficienti a Tonina per salvare Marco, ma le hanno consentito almeno di raccogliere dati utili a indirizzare le indagini dopo la morte del figlio. All'uomo accusato di aver fatto avere la droga a Pantani negli ultimi tempi, compresa la dose letale, mamma Tonina aveva inviato, proprio ai primi di febbraio prima di imbarcarsi per la Grecia, degli sms minatori.

"Lascia in pace mio figlio", scriveva.

Una volta mamma Tonina andò a botta sicura. Convocò uno dei suoi sospetti e gli dette appuntamento al chiosco delle piadine. Gli fece credere che era stato pedinato e filmato da un investigatore privato mentre cedeva cocaina al figlio, e quindi non era il caso di mentire. Lui, allora, confessò di essersi fatto pagare circa novemila euro per una serie di forniture e promise di stare alla larga da Marco.


Lunedì 9 febbraio 2004

Era la prima volta che il campione alloggiava nella struttura. Non aveva bagaglio, a parte lo zainetto. Erano le due del pomeriggio del 9 febbraio 2004. Il cliente disse che si sarebbe fermato una notte.

- Stanza D5, quinto piano.

L'appartamento era un monolocale soppalcato, chiamato "Mimosa" da 3-5 posti, 28 metri quadrati (tv color e telefono) dal costo di 55 euro al giorno, prima colazione inclusa.

Verso le otto Pantani chiese a Silvia se era possibile ordinare una pizza e una coca cola fuori. Fu lei stessa a portargli il pasto.

Fece altre due telefonate. Parlò, forse per avere rassicurazioni sulla fornitura o forse di altro, con il titolare dell'attività reclamizzata nel biglietto: "Angels Agency", fornitura di personale specializzato in locali notturni. Ragazze immagine. La stessa agenzia per cui aveva lavorato Christina quando faceva la cubista.

- Sto aspettando una persona, la faccia salire.

Verso le dieci, il telefono diretto della stanza D5 squillò. La chiamata proveniva dalla strada, una cabina pubblica. Il segnale.

Era Ciro Veneruso, il "corriere" aveva portato la droga per il campione da Napoli. A fornirgliela la sera prima in Campania, per l'accusa, fu Fabio Miradossa, suo amico di infanzia a Portici. Miradossa era il fornitore napoletano scappato da Rimini dopo i messaggini della mamma di Pantani.


L'arte della piadina

Discoteca Energy, Cesenatico. Inverno '95. Una delle cubiste, una danese, seduta sul divanetto accanto a un giovane. Le stampelle appoggiate ai braccioli. Musica assordante.

- Marco chi?

- Pantani, Marco Pantani, il ciclista. Sono finito sotto una Toyota alla Milano-Torino.

- Milano-Torino?

- È una gara, te l'ho detto: corro in bicicletta.

Si conobbero così. A presentarli era stato Jumbo, l'amico dee jay. Lei non sapeva chi fosse e questa era una cosa che a Marco piacque parecchio. 

Christina, per il Pirata, scese dal cubo e imparò a spianare piadine accanto alla mamma Tonina.

Mamma Tonina le rimproverava spesso di mettere Marco alle strette proponendogli l'ingiusta alternativa:

- O me o la bici.

Christina però voleva solo far capire al fidanzato che c'era anche qualcos'altro nella vita oltre il ciclismo, per lei c'era la passione per l'arte, e che non sarebbe stato il Pirata per tutta la vita. Pantani sgranava gli occhi. La bici era la sua vita, ma anche Christina era la sua vita. Morì quando fu certo di aver perso entrambe.

Lo amava. Cominciarono a drogarsi insieme. "Se l'avessi giudicato lo avrei perso. E allora pensai: se lo amo devo farlo anch'io" La dimostrazione che lui si attendeva. L'illusione di poter riprendere una comunicazione interrotta. Un terribile errore.

Dopo tre mesi di disperazione e cocaina, Christina se ne andò.


La Dama nera 

La russa entrò nella vita di Pantani proprio in quei giorni, quando Michael organizzò a Predappio una serata a quattro per rallegrare il soggiorno all'amico. Una polacca e una russa. Finì che Marco simpatizzò con la ragazza di Mosca. Straniera, cubista, alta, bella. Una che non sapeva di trovarsi davanti uno famoso. E questo a Pantani piacque.

S'incontrarono, stando alla contabilità della stessa russa, "sette, otto volte". L'ultima il 30 dicembre nella casa di Predappio dove era cominciato tutto. In mezzo anche un paio di appuntamenti nella villa di Sala di Cesenatico dove la russa si presentò e la seconda volta fu affrontata da mamma Tonina: "Lascialo in pace, tienilo alla larga dalla droga".

- Io a suo figlio do solo il mio corpo.

A farle prendere le distanze da Pantani, che vedeva ogni volta più giù di morale, fu la notte di sesso e droga con lui nella stanza 413 dell'Hotel Touring di Miramare, il 26 dicembre 2003.


La solitudine dello scalatore

Trascorse il pomeriggio nell'appartamentino. Alle otto chiamò la hall per la cena. L'ordinazione la raccolse Pietro Buccellato, trapanese, studente universitario a Forlì e portiere al residence nel fine settimana. Pantani desiderava una frittata, prosciutto, un po' di formaggio e qualche succo di frutta. Un pasto da atleta, come tutti gli altri consumati nei precedenti giorni.

Il titolare, Oliver Laghi, però non sapeva fino a quella sera che il cliente cui portava le pizze fosse Pantani. Quando il portiere glielo disse, pensò volesse fargli uno scherzo. Oliver, con un passato da ciclista nei dilettanti, era un tifoso scatenato del Pirata. Idolo suo e del figlioletto. Volle consegnare personalmente l'omelette e salì al quinto piano da solo con il vassoio. Bussò. Si preparò per dirgli di come lui, Pantani, avesse realizzato tutti i suoi sogni di aspirante ciclista, di racconta rgli di quando arrivò fino in Francia per incitarlo. Voleva chiedergli un autografo per il bambino. Lasciò perdere quando vide il proprio mito socchiudere la porta D5. Apparve un uomo stanco, sciupato, dagli occhi lucidi.

- Sono un grande tifoso, tieni duro, noi ti aspettiamo Pirata, fu quello che riuscì a dire tutto d'un fiato.

Emanuele e Andrea riconobbero nel loro strano interlocutore il campione solo dopo un po' che tentavano di rasserenarlo. Gli domandarono qualcosa sul ciclismo, sulle sue vittorie. Come unica risposta li invitò a toccare il quadricipite della sua gamba destra:

- Sentite che muscoli, questo è legno.

Spiazzati dagli atteggiamenti del Pirata, tagliarono corto:

- Ciao, ci vediamo domani.

Pantani assunse un'aria grave. Fu allora che pronunciò in dialetto, una frase compiuta:

- A ne sò sui sarà un elt dè par me.

Non so se ci sarà un altro giorno per me.


San Valentino

La ricerca attraverso il servizio telefonico non dette alcun frutto. A contattare le utenze alle quali si era rivolto Pantani cinque giorni prima dalla camera fu Pietro che alle 15.30 prese il posto dell'impiegata. I numeri chiamati erano spenti o non rispondevano. Pietro provò di nuovo.

- Pronto?

- Sì, sono il portiere del residence Le Rose, da noi alloggia Pantani e sembra avere dei problemi, siccome ci risulta che l'abbia chiamata la volevo avvertire della situazione...

- Guardi, che se si riferisce al ciclista, si sbaglia. Io non lo conosco di persona e quindi non può avere fatto il mio numero. E pensare che vivo a Rimini, a poca distanza da voi.

Passe-partout, porta ostruita. Luce accesa dallo spiraglio. Pietro richiuse per non risultare indiscreto. Più tardi al telefono fu ancora il titolare ad insistere perché entrasse nella stanza anche a costo di far arrabbiare Pantani. Lo fece. Erano le 20,40. Spinse con forza la porta bloccata dall'armadio e dal forno a microonde. La stanza era a soqquadro, sedie scheggiate, mobili fuori posto, televisore rovesciato, asciugamani per terra, telefono staccato.

Pietro salì piano i gradini del soppalco. Pantani, con indosso solo i jeans, era riverso faccia in giù accanto al letto. Morto. Caldo soffocante, tende chiuse. Fuori dalla finestra, il mare d'inverno.

Chi ama Pantani, "campione straordinario, ma un uomo come tutti gli altri" secondo la definizione di un suo gregario, avrà un motivo di consolazione in più: il racconto della fine della sua vita chiude la parentesi della cronaca e restituisce il Pirata alla dimensione leggendaria. A quella di un mito nato dieci anni fa, al Giro d'Italia del '94, con una fuga d'altri tempi sul Mortirolo. Potrà sembrare strano: anche allora era il 5 giugno.

Andrea Rossini
TuttoBici (N. 2, 2005)

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