Segreti e bugie. La Corea del Nord ai Mondiali del ‘66
(ha collaborato Christian Giordano)
Sport e politica, un binomio indissolubile, ieri come oggi; un connubio presente in dosi rilevanti anche nella storia dei Mondiali, da Italia 34 a Francia 38 (l’unico torneo a squadre dispari perché in una fredda mattina di marzo l’Austria sparì, inglobata dall’Anschluss nazista), da Germania 74 (la sfida tra le due nazionali tedesche) ad Argentina 78 fino all’attuale caso-Iran, ma di esempi ce ne sarebbero tanti altri. Un legame che a volte presenta tratti persino grotteschi, come accadde in Inghilterra nel 1966.
Tra gli stati qualificati alla fase finale c’era infatti la Corea del Nord, che aveva beneficiato del contemporaneo ritiro di sedici nazionali africane e asiatiche (in segno di protesta contro la decisione della Fifa di creare un unico gruppo afro-asiatico-oceanico per la qualificazione ai mondiali) e si era guadagnata l’accesso battendo l’Australia (6-1 e 3-1) in un doppio incontro disputato sul neutro di Phnom Pehn, in Cambogia. Ma il governo britannico non intendeva assolutamente ospitare il suo proprio suolo gli uomini guidati da Myung Rye Hun, dal momento che la Repubblica Popolare Democratica di Corea non era mai stata ufficialmente riconosciuta dall’Inghilterra, la quale era stata alleata (assieme a Stati Uniti e Australia) con i coreani del sud durante la sanguinosa guerra di Corea terminata tredici anni prima senza la firma di alcun trattato di pace (tecnicamente quindi le due coree sono tutt’oggi in guerra). Nacque così una strategia di vero e proprio mobbing ante-litteram, orchestrata dal Ministero degli Esteri inglese con la gentile collaborazione della FA (la Federcalcio britannica), del DES (il Dipartimento dell’Educazione e della Scienza) e dell’ambasciata sudcoreana, un boicottaggio strisciante venuto alla luce solamente in tempi recenti in seguito alla caduta del divieto di accesso per alcuni documenti contenuti nell’archivio del Foreign Office britannico.
Il governo inglese scelse inizialmente la soluzione più drastica: ai coreani sarebbero stati negati i visti d’ingresso. Un’ipotesi che la FIFA bocciò sonoramente, minacciando il ministro dello sport inglese, il laburista Harold Wilson, di revocare all’Inghilterra l’organizzazione della coppa del mondo e trasferirla altrove. Il rapido dietro-front del governo si concluse con la ferma intenzione di “minimizzare la presenza visiva della Corea del Nord, in maniera tale da evitare qualsiasi atto che potesse essere scambiato per un’accettazione diplomatica del suo regime comunista”. Tutto ciò si tradusse con il mancato invito dei rappresentanti del piccolo stato asiatico al sorteggio del 6 gennaio a Londra (gli inviti, si disse, andarono persi), con l’ordine che la squadra venisse chiamata Corea del Nord e mai Repubblica Popolare Democratica di Corea, come invece riconosciuto dalla FIFA, e con il divieto di suonare gli inni nazionali all’inizio delle partite, ad eccezione di quella di inaugurazione e della finale, un incontro quest’ultimo che i coreani, si presumeva, non avrebbero mai raggiunto. Venne inoltre cancellato il francobollo ufficiale dei Mondiali che riproduceva la bandiera della Corea del Nord, mentre non fu possibile impedire la diffusione di tali bandiere negli stadi, dal momento che la FA le aveva già ordinate e pagate. La nazionale coreana infine fu spedita il più lontano possibile da Wembley, precisamente nella città industriale di Middlesborough, estremo nord dell’Inghilterra, e come campo di allenamento gli venne assegnato un modesto impianto sportivo con vista su un impianto petrolchimico.
Ignari delle trame del proprio governo, i tifosi inglesi simpatizzarono all’istante con quei giocatori fisicamente gracili e tecnicamente acerbi, la cui principale arma tattica era rappresentata dalla velocità. La Corea del Nord divenne la squadra-mascotte del torneo tanto che, dopo essere stata surclassata all’esordio dall’URSS (0-3), quando riuscì a strappare un pareggio al Cile (1-1, rete a due minuti dalla fine di Pak Sung Yin), a fine partita molti tifosi inglesi scesero sul campo abbracciando i giocatori, che vennero poi ricevuti dal sindaco di Middlesborough per una vigorosa stretta di mano. Poi arrivò l’Italia, e i coreani entrarono nella storia. La pagina più nera nella storia degli Azzurri è un racconto ormai noto: la strage di palle-gol dell’Italia nei primi minuti di gioco, l’infortunio di Bulgarelli, la rete dell’insegnante di ginnastica nonché calciatore professionista (e non dentista come fu erroneamente scritto) Pak Doo Ik al 41esimo del primo tempo, le parate di Ri Chan Myong e la definitiva eclissi nella ripresa degli uomini guidati dal duo Fabbri-Valcareggi.
Passaggio del turno per la Corea e sudori freddi per qualche membro altolocato del Foreign Office, specialmente quando dopo ventiquattro minuti del quarto di finale contro il Portogallo Pak Sung Yin, Li Dong Woon e Yang Sung Guk portarono la Corea sul 3-0. Poi l’inesperienza dei coreani e la classe, immensa, di Eusebio ebbero la meglio; un poker del fuoriclasse lusitano e una rete di Augusto posero fine alla favola della squadra asiatica. I portoghesi vinsero 5-3 e sui coreani calò un sipario colmo di bugie. Si disse che al ritorno in patria finirono in un gulag per punizione contro una notte brava in terra inglese all’insegna dell’alcol e delle donne, si disse che furono costretti a cibarsi di insetti e che morirono tutti di fame e stenti. Falsità colossali, favorite da un regime dittatoriale chiuso in un isolamento politico ed economico pressoché totale e dal quale, in termini di notizie, usciva poco o nulla. In realtà i giocatori furono trattati come degli eroi una volta rientrati a casa, sette di loro sono ancora in vita e il famoso Pak Doo Ik è diventato anche allenatore della nazionale nordcoreana.
Nel 2002 due giornalisti inglesi hanno fatto un documentario su di loro, riuscendo anche a riportarli per qualche giorno in Inghilterra nei luoghi dove fecero l’impresa. “Tornammo in patria da vincitori”, ricorda Pak Doo Ik, “e ci coprirono di medaglie. Qualcuno di noi ottenne anche delle posizioni di responsabilità, e ancora oggi siamo ricordati come gli eroi del ’66. Sapevamo che gli inglesi avevano combattuto contro di noi nella guerra di Corea, e non ci aspettavamo un’accoglienza così calorosa da parte della gente. Avevano le nostre bandiere, ci applaudivano in continuazione; sono convinto che parte del merito del nostro grande mondiale vada assegnato al comportamento della gente di Middlesborough”. A volte lo sport riesce a vincere sulla politica.
ALEC CORDOLCINI
(ha collaborato Christian Giordano)
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