DIARIO TECNICO E POLITICO DEL GIRO D’ITALIA 2022
di SIMONE BASSO
Sport e cultura - lunedì 30 maggio 2022
6 maggio, Budapest
In Ungheria con due anni di ritardo, per contratto. I dindi fanno girare la baracca, qualsiasi baracca. Tricolori girati al contrario, nell’avamposto europeo più putinizzato di tutti, il pubblico delle grandi occasioni di fronte a uno spettacolo – per loro (...) – esotico, inconsueto.
Il Giro è anch’esso un brand, molto più vendibile di altri (sportivi) gonfiati a elio e prossimi a scoppiare, ed è giusto offrirlo al miglior cliente.
Incomprensibile invece il pacchetto tecnico della partenza. Tre giorni magiari, decorativi, d’incasso, e il ritorno in Italia dalla Sicilia: una fatica logistica snervante.
Il percorso del Giro 2022 è disseminato di salitone, salitacce, salitelle, ben 48 di ogni categoria: troppe.
Almeno una tappa di montagna, dovevano risparmiarcela.
Nel ciclismo post moderno (per fortuna?) il lignaggio si crea con l’universalità. Le frazioni intermedie sono disegnate meglio dei cosiddetti tapponi; che spaventano le gambe di chi deve pensare ai 21 capitoli del romanzo rosa.
Oltre l’enfasi televisiva, l’urlo a comando sullo scatto in salita, fanno più selezione cinque chilometri di strade bianche rispetto a un GPM stile rampa di garage.
E l’abiura a una cronometro nel bel mezzo del Giro, a mo’ di spartitraffico, è un boomerang: se la classifica non si delinea, le possibilità d’attacco dei big si riducono. Tutti coperti e allineati, aspettando l’occasione: così, il Giro comincia sempre il giorno dopo.
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11 maggio, Messina
Sicilia bedda, coloratissima, incasinata.
Vincenzo Nibali, a casa sua, fa la cosa giusta: annuncia il ritiro. A quasi 38 anni, con un tachimetro che segna un chilometraggio omerico, l’ultimo Grande di Bicitalia saluta. Scappa la lacrima, vera, considerando lo scenario complessivo.
Un palmarès sontuoso, di qualità, da Felice Gimondi del nuovo secolo, per il più polivalente dei Tre Tenori dei grandi giri anni Dieci (gli altri due, Chris Froome e Alberto Contador).
Scuola tecnica toscana, foglia di fico di un movimento tricolore decaduto.
Non un caso che crebbe in Liquigas, l’ultimo squadrone italiano con un progetto (futuribile) erede dell’originale (Mapei), passando per la Fassa Bortolo.
La Milano-Sanremo 2018 la polaroid del suo talento speciale, nevrile; lo stesso anno, al Tour, nella bolgia dell’Alpe d’Huez, il pit-stop decisivo della carriera.
Non è mai stato un personaggio e, in un Paese cialtrone come il nostro, fu un minus importante per un campione di quel livello. Ma a Nibali non interessava: il ragazzino ambizioso, con la capatosta, che emigrò alla Mastromarco è fatto della stessa lega del veterano di questi ultimi anni, agrodolci.
Meno indulgente il discorso sull’Astana. La fuga in ammiraglia al chilometro zero, il dì dell’Etna, di Miguel Ángel López certifica un (piccolo) disastro gestionale. Il colombiano, malgrado il potenziale (la chimera che tutti inseguiamo), è questo. Una specie di Carlos Alberto Betancur (che era più forte) tappista?
L’anno scorso, alla Vuelta, il contro-numero nella frazione corrida verso Mos quando, terzo in classifica, staccatosi dai migliori, ebbe una crisi isterica, coi compagni ad aspettarlo e lui che si ritirò... Chissà adesso le risatine in Movistar, nel bus all’ombra del vulcano.
A 28 anni trattasi dell’ultimo contrattone di López, con questo grecale, spendibile. Il conto alla rovescia, implacabile, è cominciato.
Nel ciclismo degli SRM, della biomeccanica, della percentuale di grasso, la cabeza diventa la chiave dell’ingranaggio. Alcuni fondono la centralina, non il motore.
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15 maggio, Blockhaus
Ieri una mini-classica girando attorno a Napulé, qualcosa che – a imprenditori e dirigenti svegli – suggerirebbe una gara ad hoc o un circuito iridato.
Oggi, su e giù per la Maiella, un solleone agostano e – appena cominciato il Blockhaus – una setacciata.
Sulla salita dei blocchi di sassi non c’è un albero, le catramature (Mastronardi docet) di Tom Dumoulin e Giulio Ciccone paiono definitive: l’abruzzese non è da corsa per i Giri, la classifica (alta), meglio specializzarsi in altro.
Saltano Simon Yates, il Giro una maledizione, Pello Bilbao, Wilco Kelderman.
Resistono – per quel che possono – i vecchiacci: Alejandro Valverde, Nibali, Domenico Pozzovivo, Richie Porte (pesce-pilota di Richard Carapaz).
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20 maggio, Cuneo
Quattro davanti a menare, il gruppo à bloc per riprenderli.
Ennesima giornata a manetta, senza risparmio energetico, alla faccia degli ex che ci intortano col ciclismo che fu: nel quale, a volte, si iniziava a correre con l’accendersi delle telecamere. Prima, una gita cicloturistica. Oggi 45,39 km/h di media.
Il caldo estivo sta cuocendo piano piano, su una striscia d’asfalto, il plotone.
Romain Bardet, fino all’altroieri uno dei papabili (per la rosa a Verona), lascia il Giro sul Colle di Nava. La gastroenterite, quando si recupera poco, si mangia così così e si beve tanto, è sempre dietro l’angolo.
La prima metà della corsa rosa finisce a Coni, con una volatona del velocista dominante, Arnaud Démare.
Vedendo le facce, domani – e lo si capiva leggendo ad aprile il Garibaldi – il Giro salterà in aria.
Nel frattempo, una marea di folla. Un po’ spaesata, casual(e), divertita, divertente, soprattutto rispetto ai brutti ceffi che stanno (altrove) tra lo stadio (l’ultimo stadio) e i Papeete coi bus scoperti.
Non sappiamo come si concilierà questo pubblico (generalista) col ritorno del ciclismo italiano (agonistico). Non i detriti, i cocci, del 2022 ma una prospettiva meno indifferente, laterale, patetica, vecchia, del nostro sport nazionale; che è, era, fu, mica il calcio che è per noi quello che è nelle Indie il cricket.
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21 maggio, Torino
Il circuito delle colline torinesi ribalta il tavolo. Anzi, lo lancia dalla finestra. Due volte Superga, idem con patate il Colle della Maddalena, e brilla tutto.
L’Inferno, il tratto di massima pendenza della Maddalena, in un bordello di gente, chiarirebbe che il futuro dei Giri sta qui.
Un tracciato vario, senza cercare le salite estreme, con gli ingredienti giusti per far spettacolo, e col pubblico che può vedere i girini più volte.
Paesaggi verdi, selve oscure care a Gianni Agnelli e a Carlo Mollino, ma le temperature sono nordafricane.
Mettete un Mathieu van der Poel che prova (scegliendo le tappe sbagliate, Genova e Torino...) a creare una fuga e la Bora-Hansgrohe che picchia ai meno 70 chilometri.
Kelderman, un dromedario, fa il suo poi – sul più bello – Carapaz, con la Ineos-Grenadiers scoppiata, scatta e se ne va.
Juan Pedro López, la sorpresa in maglia rosa, cede ma si batte (leoncino).
Altri rimbalzano all’indietro, tipo l’Embatido Valverde a 8 minuti.
Nibali, in una gara a eliminazione diretta, svetta.
Hindley, descritto due anni fa come un carneade, fa la differenza.
Il duo Team Bahrain, Mikel Landa e Bilbao, si salva ma non troppo.
Quasi inspiegabile la resistenza di Pozzovivo, João Almeida re dell’elastico.
La tappa più bella del Giro 2022.
Vince, con uno strappo d’autore (un Fontana) a 5 km dall’arrivo, Simon Yates; che sa bene d’aver buttato via, cadendo ad Avola, un’occasione d’oro per diventare il secondo Brit – il primo fu Froome (e Simon se la ricorda, ahi lui, l’impresa nella Via Lattea...) – ad aggiudicarsi la maglia rosa finale.
Quasi quattro ore di applausi, 40 minuti in più per la rete (degli sprinter) che salva la pellaccia.
Un mestieraccio, il ciclista degli anni Venti: ci vorrebbe un altro Albert Londres a narrarlo, ma non è previsto nel cartellone.
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23 maggio, Salò
Riposo con vista lago e montagne, Monti Pallidi inclusi.
Il ciclismo è il nostro baseball: legge le viscere del Paese e del mondo, propone una visione privilegiata (dall’alto e dai marciapiedi) del presente.
Salò è stata la Fossa delle Marianne dell’anima (nera) italiana, sul finire del fascismo del Tempo Di Uccidere (e uccidersi).
Qui l’ultimo Pier Paolo Pasolini, al suo meglio, lontano dai pasolinismi, ambientò uno dei migliori ritratti, politici, psicosessuali, sadici, della nostra borghesia.
Sessant’anni fa i Mondiali vinti da Jean Stablinski, il polacco-francese che centinaia di corridori ogni anno, alla Parigi-Roubaix, maledicono. Fu Stablinski a suggerire la Foresta di Arenberg agli organizzatori: ancora dilettante, lavorava in quella miniera.
Leggiamo ancora, in giro (minuscolo), la fesseria che lo sport non deve essere mescolato con la politica.
A cinquant’anni da Monaco 1972, cinquantaquattro dalla strage degli studenti a Città del Messico e i pugni chiusi (i guanti neri) di Tommie Smith e John Carlos.
Nello Stivale della Serie A inventata da Leandro Arpinati, del riscatto post-guerra di Coppi e Bartali eccetera.
Nessuna attività umana è più veloce, immediata (sociale e politica), dello sport professionistico.
Stracciarsi le vesti per Aryna Sabalenka non invitata a Wimbledon, significa non aver compreso le dinamiche del mondo.
Dovremmo chiederci cosa vorremmo dal sistema in sé.
Lo sportswashing, gli eventi monstre, i fondi sovrani, le federazioni internazionali enti offshore, quelle nazionali votifici, i marchi del potere come sponsor?
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25 maggio, Lavarone
Una scherzaccio della Valsugana, il Menador è una salita di culto. Una lingua panoramica, costruita durante la Grande Guerra.
Qualche anno fa, sterrata, con la pioggia diventava un incubo cogli orchi, a ogni curva, che ti soffiavano contro.
La picchiata dopo il Valico del Vetriolo, su Caldonazzo, ci spiega il genio ludico di van der Poel; che si diverte, ancora in fuga, tra un calivo e un tornante, un drittone e una piega.
Un Giro da fuoriclasse, da fenomeno, degno dei Van (Steenbergen e Looy) che corsero in Italia.
Dietro, molto dietro, dal gruppo dei mammasantissima, prendono un’imbarcata Pozzovivo (caduto per l’ennesima volta ieri, scendendo dal Mortirolo), più storto che mai, Valverde, Bilbao, Nibali.
Un crepuscolare Yates torna a casa.
Davanti, all’avventura, ci sono sempre gli stessi: Hugh Carthy, Jan Hirt, Santiago Buitrago.
Quest’ultimo è un colombiano di 22 anni con un colpo di pedale, quando la strada tira all’insù, musicale. Maurizio Fondriest scommette su di lui.
L’olandese Gijs Leemreize, sorpassato da Buitrago poco prima dello scollinamento, è un altro giovanotto con un futuro assicurato.
Al pari del connazionale Thymen Arensman, che era con loro nella fuga: un bel cavallo da Tour, segnatevi il nome.
Tra una galleria e uno strapiombo, a 15 km l’ora, la stanchezza ad avvelenare i muscoli, rimangono quei tre. Carapaz, Hindley e Landa.
Almeida, lo spauracchio della crono scaligera, perde terreno: la mattina dopo, il covid fermerà la contesa del portoghese.
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28 maggio, Passo Fedaia
La Val di Fassa inghiotte il Giro e ci riempiamo gli occhi delle Dolomiti.
Il Passo Pordoi l’abbiamo visto talmente tante volte che ci sembra un fumetto, con quei colori, quella serpentina di folla.
E’ la trentaseiesima occasione rosa e i primi due, a scollinarlo, si chiamavano Gino e Fausto.
Alessandro Covi, 23 anni e mezzo da Taino, regala un senso diverso alla UAE Emirates e – forse – alla sua carriera.
A metà ascesa se ne va, improvvisando ma non troppo, e fa Paganessi 1983 ma con prospettive (speranze) di altro spessore.
Se son rose, fioriranno, intanto sono 50 chilometri di fuga vincente.
Per quelli della generale si aspetta, con le forze al lumicino, il buco nero della Marmolada.
A Malga Ciapela, come da oroscopo, il terremoto.
Lennard Kämna, in avanscoperta dal mattino per la Bora, attende Hindley e prepara la botta del capitano. Carapaz va in crisi a 3 chilometri dal traguardo, la ruota della sua Pinarello agonizza sulla scia del rivale australiano, mentre Kamna strattona.
Jai, che da giorni appariva il più fresco del lotto, vince il Giro 2022 sulla stradona collosa del Fedaia; 5500 metri in 19 minuti e 25 secondi: a 16,86 orari una performance di livello assoluto.
Hindley ha imparato il lavoro, la bici, in Abruzzo, all’Aran Cucine di Umberto Di Giuseppe: abitava a casa del diesse.
A dispetto di Cadel Evans, un gigante del ciclismo moderno, è il primo Aussie a vantare la maglia rosa finale.
Scalatore di classe, tappista con la terza settimana nei garun, lo rivedremo per qualche stagione a queste altezze. Magari anche al Tour, non per la gialla, ma sui Pirenei e sulle Alpi di sicuro.
Carthy, l’inglese volante degli ultimi giorni, lascia lì Carapaz, con la sconfitta addosso, e Godot Landa.
Il bocia JuanPe Lopez arriva col vecio Nibali.
Tutti contati al tappeto, sulla Marmolada, alla spicciolata.
Domani è (la fatale) Verona a chiudere le danze: un altro Giro se ne va.
Una marea di storie umanissime, incredibili, crudeli, allegre, che si sposta, raggiunge, mille valli, città, paesini. Una disciplina sportiva che è antropologia.
SIMONE BASSO
“Il ciclismo è una favola impura.”
(Mario Fossati)
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