2022 NBA FINALS. C’S CONTRO DUBS. LA FINE DELLO STAR POWER. PTERODATTILI DRAFTATI. FREE BRITTNEY
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di SIMONE BASSO
Sport e cultura - 20 giugno 2022
A memoria d’elefante, il cambio di passo dei Celtics di quest’anno non l’avevamo mai visto.
A novembre parevano l’armata Brancaleone.
Il punto più basso della stagione della banda di coach Ime Udoka al Madison Square Garden, contro dei Knicks balneari, quando persero – sulla sirena – dopo essere stati sopra di 25.
C’erano ancora Enes Freedom e Dennis Schroeder, la difesa un teatro kabuki.
L’innesto di Derrick White, il clic fatto con alcuni accorgimenti.
Non che ci si inventi qualcosa: le Finals sono tra la squadra migliore della prima parte della regular season – i Golden State Warriors – e la migliore della seconda parte – i Boston Celtics.
Una logica ferrea.
Vincono le franchigie con una cultura collettiva e la capacità di mescolare All-Star, veterani e giovani.
Quelle con un progetto.
Nel lontano 2015, prima dei banner issati, paragonammo quella Golden State alla Chicago dinastica: stilemi tattici, qualità manageriali, chassis tecnici.
Sette anni dopo, i sei showdown complessivi – come quei Bulls – chiudono il cerchio.
Quei Tori, nell’anno sabbatico di Michael Jordan (il 1994), erano da titolo.
Questi Warriors, due stagioni fa compilarono un 15-50 che suonava come il Tannhäuser di uno squadrone.
Eppure, evidente già in superficie, qualcosa si muoveva e il 39-30 del 2021, con il miglior Stephen Curry di sempre (meglio di quello che vinse due MVP), ci fece capire il processo (un unicum?) del coach Steve Kerr e del gm Bob Myers.
...
Il 2022 ci ha detto che lo star power, al lumicino, sta esaurendo la propria forza.
Firmare All-NBA, ammassarne di ex con il giochino del buyout, completare il roster con gli amici di scuderia non paga (più).
Alla soap perdente dei Lakers, prevedibilissima, si uniscono quelle tragicomiche dei Nets e dei Sixers, incluso lo scambio tra il Barba (un James Harden in fase calante) e "Manoquadra" (un Ben Simmons degno di Chi l’ha visto?).
Le finaliste del ’22 furono gabbate, nel recente passato, da Kyrie Irving (Boston) e Kevin Durant (Golden State).
Con l’approssimarsi del nuovo NBA Collective Bargaining Agreement, il potere (contrattuale) di certi giocatori dovrà ridimensionarsi.
Nell’annata, 28 squadre hanno pagato 220 milioni di luxury tax, Golden State e Brooklyn insieme fanno 268 milioni.
Limitare i Joe Lacob, gli Steve Ballmer sarà la missione di Adam Silver?
GARA 1
Udoka fa attaccare contro Jordan Poole e di là battezza Andre Iguodala (all’ammazzacaffè) e Draymond Green, Jayson Tatum (in evidente shooting slump) niente male nelle vesti di facilitatore.
In fondo sono arrivate le prime due squadre difensive della regular.
Due filosofie opposte, soprattutto quando Robert Williams è sul parquet.
Cristoni contro smallball, Boston produce iso e vuole i pick and roll, Golden State vive di motion e crea i tagli.
Dopo l’inizio sci-fi di Steph, cura Marcus Smart sul #30.
Kevon Looney chiave offensiva per i rimbalzi, che prende o sporca.
Se vanno in ritmo, i C’s hanno un’insospettabile circolazione perimetrale di palla.
Sotto di 14, mentre impazzano i Dubs, una tripla di White accende la fiamma che diventa incendio.
Quando anche il maestro venerabile Al Horford tira da tre come Brad Lohaus (...), si comprende che il semaforo è verde.
GARA 2
Smart, nel primo quarto dominante dei suoi, perde due Wilson pensando di essere – in post alto – John Williams.
Vai dove ti portano Draymond, con l’aggressività difensiva (un libero e un regista), e soprattutto Steph; che alimenta la centrale della Baia: del Chase Center, dei compagni, delle praterie che produce coi suoi movimenti e il suo raggio di tiro infinito.
E diamolo il Bill Laimbeer Trophy, come Stronzo della Lega, all’Orso Ballerino.
Radio NBA dà quasi per certo Irving a Los Angeles, sponda Clippers.
I Clips, storicamente, amano il pericolo quanto il ridicolo.
Poole da tre, poco dopo la metà campo: ci informano che era da 39 piedi, nella storia delle Finals due triple dai 40 (Mark Jackson e Mario Chalmers).
Non valeva tre, ma Jerry West nel 1970 la imbucò dai 60.
Il terzo quarto dei Dubs, un marchio di fabbrica dinastico: che ci fossero Harrison Barnes o Andrew Wiggins, KD o Poole.
Tutto cambia, si trasforma, per non modificarsi.
GARA 3
La prima partita rotta (...), Boston la comanda nella painted e sotto i tabelloni.
La scelta di coach Udoka su Curry è rischiosa quanto produttiva: il lungo sui P&R sta dietro, i C’s si espongono alle triple di Steph ma costringono i Dubs a giocare fuori del proprio flusso, rendendo meno efficace la motion.
Green, confuso e infelice.
GARA 4
Si gioca il basket di Boston, al pace di Boston, con un Green (disastroso) che fa giocare Golden State – in attacco – in quattro.
A 7 minuti dalla fine, 86-91 palla in mano ai Celtics, sembra che l’inerzia non possa cambiare.
Poi un quintetto con Looney e Poole, senza Green, consente agli Warriors il colpaccio.
Golden State riempie l’area, difensivamente, dunque si batte ribaltando il lato (muovendo la palla).
Ron Adams sottolinea ciò che si sa(peva): il ballhandling è il tendine d’Achille dei C’s.
La banda-Kerr picchia scientificamente sulla ferita (aperta).
Un Curry for the ages.
Dei “piccoli”, a quelle altezze verso giugno, nell’èra moderna abbiamo visto solo Isiah Thomas.
Di quelli recuperati (sic) Bob Cousy: siamo nell’empireo, all’eccellenza assoluta.
Chiusa l’èra della deadball, Curry stacca i contemporanei col suo gioco senza palla.
Una specie di calamita tattica.
Malgrado le doti da fromboliere in palleggio, inventa il (nuovo) gioco con altro.
Toglie il tempo, lo ruba, alle difese avversarie e lo regala ai suoi, persino col jumper che non è in sospensione, bensì in elevazione.
Coi movimenti, le penetrazioni, i tiri, crea uno spacing inedito: per le difese, il campo diventa quello di football. Troppo largo.
Nell’evoluzione (fotonica) del basket, Curry è il nostro Hank Luisetti: introduce un paradigma tecnico che cambia, per sempre, il gioco.
Lo ricordiamo a Davidson, una missione impossibile nel Torneo NCAA, e ce lo immaginavamo dominante sì ma al Maccabi o al Barça in Eurolega.
Oppure nei panni di un Vinnie Johnson post punk, nell’NBA, un vincente che cambiava le sorti di una partita (decisiva).
Ha invece trasfigurato la lega e la palla con estro.
GARA 5
A vedere alcuni parziali, l’infortunio a fine marzo di Timelord ha orientato un bel po’ delle Finals.
Perché pochi oscurano la vallata così, proteggendo l’anello e difendendo alto (e laterale): non un caso che gli Warriors, nella corsa playoff, abbiano sofferto – tanto – opposti a Jaren Jackson Jr.
Gli ultimi 5 minuti di gara4 sono ancora là (nella testa e nelle gambe dei verdi).
Il ventello di Wiggo non vende il plus apportato dal canadese a Kerr: la difesa uno contro uno, è lui il Tatum-stopper, i rimbalzi presi nel fango del match.
I Celtics, in un incontro con gli ultimi 8 minuti che paiono tratti dal 1994 (o dal 2004), tirano male i liberi.
Che non sia il ’94 lo si avverte quando Green fa il macho con Tatum: ai tempi, il Charles Oakley di turno avrebbe frantumato qualche osso all’Orso Ballerino...
GARA 6
Una statistica annulla qualsiasi discussione sul match più scontato della serie: 22 palle perse di Boston.
Si parte quasi con un 12 a 0 C’s, il 21 a 0 della risposta Dubs, tra primo e secondo quarto, prepara già lo champagne negli spogliatoi.
Ai verdi, in riserva, con la spia rossa accesa, manca un uomo in rotazione: lo sapevamo dalle semifinali est con Milwaukee, che era senza Khris Middleton.
In piedi, non contati al tappeto, solo Jaylen Brown (il migliore della Gang Green, un two-way di altissimo livello) e Smart.
Che il quarto anello della dinastia, sull’onda delle folate del #30, arrivi pure per l’energia di un journeyman raccattato dal marciapiede (Gary Payton II, una dinamo con la centralina accesa) racconta molto del metodo Warriors.
Al minuto 48, Steve Kerr entra in un club esclusivo dell’NBA post merger: quello con Pat Riley, Chuck Daly, Phil Jackson e Gregg Popovich.
INSALATA DI RISO
In una contesa marzolina di regular, vinta da Brooklyn, nel secondo tempo – incuriositi dalla ripetitività dello schema (?) – ci siamo messi a contare gli isolamenti di Kevin Durant oltre la zona del tiro libero: ci arrendemmo a 12 (and counting), tutti uguali nell’esecuzione.
Pensavamo a Erik Spoelstra (scuola Riley) e a Udoka (cattedra Popovich) che si sfregavano le mani.
Delle difese competenti, di fronte a un attacco così monocorde, vanno a nozze.
Si imputa a Steve Nash una colpa relativa, ovvero aver accettato una situazione estrema.
La realtà, storica, è che Durant e Irving – freak dell’uno contro uno, dell’hero ball – non vogliono essere allenati (sul serio).
E’ la carriera di KD, dai Thunder ai Nets, a illustrare la sua idea di pallacanestro: agli Warriors era in affitto.
Il suo Usage demenziale di gara2 contro Boston – oltre il 45 per cento – esponeva bene i limiti (di mentalità) di uno dei migliori esterni offensivi di sempre.
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Jimmy Butler è stato il miglior giocatore di due delle ultime tre edizioni dei playoff.
Che il 22 degli Heat non venga contemplato nei (tre) quintetti All-NBA non è un problema (nostro, più che altro suo: i bonus nel contratto sono innumerevoli..).
Nessuno, nemmeno quelli più cantati, produce palla con estro (attacco e difesa) con quell’impatto sulla sua comba.
I suoi possessi sono essenziali, non toglie flusso di gioco a Miami, legge partita e compagni, marca (a uomo), cambia, raddoppia.
Fosse preceduto da una fama differente, glielo riconoscerebbero di più.
L’etichetta è tutto.
E la mossa di Philadelphia nell’estate 2019 (ricordiamoci sempre dei quattro tocchi sul ferro del tiro di Kawhi Leonard, quando giudichiamo per sentenze...), che gli preferì Simmons, pensiamo sia stata la scelta manageriale più stupida di questi anni.
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Il draft è la scienza imperfetta che permette di chiamare al numero 1 Anthony Bennett (2013) e al 28 Tony Parker (2001).
Vive di tendenze che si trasformano in mode, che passano sempre più velocemente.
Nel basket prima del tiro da tre, del percentile, il centro (il pivot) era la legge.
L’evoluzione del gioco ha portato, attraverso le ere, a infatuazioni verso point-guard sovradimensionate (alla ricerca di altri Magic Johnson...), lunghi che tiravano da sette metri (Dirk Nowitzki docet: Andrea Bargnani fece il botto per quello...), off guard post jordanesche come piovesse eccetera.
Nel positionless basketball di oggi (e di domani), con l’esempio mostruoso di Giannis Antetokounmpo come manifesto, si cercano altri pterodattili.
Apertura alare da Mister Fantastic, che coprono spazi impensabili (prima), stoppando e tirando sopra la testa degli altri.
I prossimi, promettentissimi, sembrano Chet Holmgren e Victor Wembanyama.
Noi, nel nostro piccolo, siamo apparsi a Ulrich Kamke-Chmoche.
In quota Elevate Program Player dell’improbabile Basketball Africa League: dal FAP, Camerun, 16 anni e mezzo (si dice), 2 e 12 con una coordinazione e un (primo) passo da ghepardo.
Ci ha fatto paura: segnatevi il nome.
Poi magari è il prossimo Joe Pace, o Michael Olowokandi (!), pazienza.
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Brittney Griner è una delle campionesse più celebrate della WNBA (e dell’eurobasket).
Da febbraio, a mo’ di vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro, è detenuta in un carcere russo.
Giocava a Ekaterinburg, durante l’off season delle Phoenix Mercury, da tanto tempo.
L’hanno fermata all’aeroporto internazionale di Sheremetyevo, mentre stava tornando negli States: l’alibi legale, un po’ di olio di cannabis nel contenitore della sigaretta elettronica.
A dispetto degli appelli, delle colleghe, di LeBron James, dei Celtics, delle iniziative politiche e diplomatiche, Griner è usata dai russi come un ostaggio.
Nella neolingua sputnik, da Khimki comunicano che “l’unico problema oggettivo è la statura della cestista. I letti nella cella sono previsti per una persona più bassa.”
Si bisbiglia della proposta di uno scambio – alla pari, la minaccia sono i dieci anni di carcere per Brittney – con Viktor Bout.
In soldoni, la Russia mette sullo stesso piano la Griner con un trafficante d’armi, un criminale, soprannominato Merchant of Death.
Fa specie che la vicenda, oscena, si possa riassumere in una (semplice) frase detta da un celeberrimo senatore repubblicano, conservatore, nel lontano (e vicino) 2015.
L’altra America, non quella (altrettanto tosta) di un’afroamericana omosessuale, orgogliosa, spesso critica col suo Paese.
“Russia is a gas station masquerading as a country. It’s kleptocracy. It’s corruption.”
(John McCain)
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