19 – Isiah Thomas
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Chi ha mai detto che per giocare in NBA e risultarne a bocce ferme uno dei migliori players nella storia, bisogna per forza essere simpatici e benvoluti? A quanto ci risulta, nessuno.
Dunque possiamo pure mettere da parte l’Isiah Thomas che da GM e coach dei Knicks ha fatto più danni della grandine. E mettiamo anche da parte il Thomas cospiratore all’All Star Game del 1985.
Poi, con uno sforzo, dimentichiamoci del Thomas che fece indignare sportivi e decoubertiani nelle finali di Conference del 1991 o ancora quello filo-razzista dei playoffs del 1987.
Beh, sembrerà strano, ma ciò che rimane probabilmente basterebbe a riempire un’epica enciclopedia sulle imprese e la splendida carriera del più grande piccolo di ogni tempo.
Perché è esattamente di questo che stiamo parlando.
Isiah Lord Thomas III nacque a Chicago il 30 aprile del 1961, nel difficile quartiere del West Side, uno dei più poveri e pericolosi della città, preda delle scorribande e della violenza delle gang giovanili. Era l’ultimo di nove figli.
Il padre abbandonò casa e famiglia quando lui era ancora un neonato. Isiah crebbe nella miseria e nella disperazione più nera.
Un giorno i reclutatori di una delle tante bande che affollavano il quartiere, bussarono alla porta di casa Thomas per fare proseliti fra i numerosi figli. Mamma Mary imbracciò il fucile a canne mozza e minacciò di far fuoco. Isiah aveva solo cinque anni ed assistette impietrito alla scena.
Ma era difficile opporsi alla violenza di chi era abituato a comandare. Il piccolo Thomas vide i suoi fratelli maggiori finire nel baratro della droga, risucchiati dalla strada, perdersi fra la polvere del West Side.
Lui era il più piccolo. Era protetto da tutti. Forse fu questo a salvarlo.
Quella di Zeke, come sarà ribattezzato in futuro, è la classica storia del ragazzo che vede nel basket l’unica speranza di venir fuori da una vita che non promette nulla di buono.
A 3 anni palleggiava così bene che si esibiva nell’intervallo delle partite della lega cattolica. A 13 anni scelse l’High School che potesse dargli i migliori fondamentali di basket, incurante della distanza da casa.
Andò alla St. Joseph’s di Weichester.
Ogni mattina si alzava alle 5.30 per essere lì in tempo per le lezioni. Vinse il titolo dello stato nel 1978. Nel 1979 fu incluso fra i migliori High Schooler d’America. Portò a termine gli studi fra mille difficoltà, spronato da quel basket che iniziava a diventare la sua vita, il suo futuro.
Come college aveva decine di richieste, ma scelse Indiana impressionato dalla grinta dell’immenso Bobby Knight. Il rapporto fra i due non fu sempre idilliaco.
Si narra che durante una partita ai Pan American Games del 1979 a Portorico, prima ancora che Thomas scegliesse il college, Knight che guidava la selezione statunitense, si imbestialì così tanto per una sua giocata che dapprima minacciò di rispedirlo a casa col primo aereo, in seguito attaccò il giocatore al muro urlandogli contro fra un insulto e l’altro: “Dovresti scegliere DePaul, Isiah, perché è certo come l’inferno che non sarai mai un Hoosiers giocando a questo modo”.
Eppure fu proprio ad Indiana che iniziò a prendere corpo la favola di questo fantastico playmaker dal sorriso radioso, alto poco più di 1.80.
Al primo anno di college segnò 14.6 punti e smazzò 5.5 assist a partita. Fu selezionato per partecipare alle Olimpiadi di Mosca, ma il boicottaggio da parte degli USA lo privò dell’esperienza. Non avrà più modo di riprovarci, stavolta per ben altri motivi.
Nel 1980 fu eletto USA Basketball Male Athlete of the Year. Al secondo anno portò gli Hoosiers alla vittoria del titolo NCAA. Nella finale contro North Carolina segnò 23 punti e rubò i due palloni decisivi che portarono Indiana sul più cinque e quindi al titolo. Vinse il premio di Most Oustanding Player delle Final Four.
L’anno successivo passò professionista nonostante l’opposizione di Knight. Isiah però aveva bisogno di soldi per aiutare la famiglia, per toglierli dal sobborgo di Chicago in cui avevano conosciuto fame, disperazione e la miseria.
Promise tuttavia alla madre che un giorno sarebbe tornato al college per terminare gli studi. Manterrà la promessa sei anni dopo, proprio il giorno della festa della mamma.
Il ventenne Zeke fu scelto dai Detroit Pistons con la seconda chiamata assoluta al draft del 1981, preceduto solamente dal suo compagno d’infanzia (nonché futuro compagno di squadra) Mark Aguirre, scelto dai Mavericks.
Il primo anno in NBA segnò 17 punti e smazzò quasi 8 assist a partita, finendo nel primo quintetto delle matricole. Fu convocato al primo dei suoi dodici All Star Game consecutivi e arrivò secondo nelle votazioni per il rookie dell’anno.
La stagione successiva assunse definitivamente il ruolo di leader della squadra. Segnò 22.9 punti a partita, la media più alta della sua carriera.
L’intera lega iniziava ad accorgersi di questo piccolo grande uomo dal sorriso ammaliante che sembrava addirittura voler contendere a Magic Johnson l’indiscusso primato di miglior playmaker della NBA.
Nel 1983 arrivò sulla panchina dei Pistons Chuck Daly e i rosso-blu di MoTown divennero da subito una squadra da Playoffs.
Thomas rimpinguò notevolmente il numero dei suoi assists. Nella stagione 1984-85, la quarta per lui, il numero 11 dei Pistons ne smazzò 13.9 a partita, la media più alta fino ad allora mai registrata nella storia della lega, superata in seguito solo dai 14.5 dati via da Stockton nel 1989-90.
Fu per la seconda volta consecutiva primo quintetto della lega. Lo sarà anche l’anno successivo per un totale di 3 primi quintetti NBA, in un’epoca in cui nel ruolo di play imperversava un certo Magic Johnson.
Nel gioco del piccolo Isiah si fondevano le migliori doti dei più grandi playmaker del passato e del presente, in un mix pressoché perfetto. Sapeva passare la palla come pochi, ma era anche un realizzatore sopraffino, capace di notevoli exploit.
Non aveva il minimo problema a cercare l’uomo libero, ma anche nessuna esitazione quando doveva prendere in mano la partita, caricarsi la squadra sulle spalle, assumersi responsabilità e tiri decisivi.
Venne eletto MVP dell’All Star Game nel 1984 (21 punti e 15 assist) e nel 1986 (30 punti e 10 assist). Nel mezzo il celebre All Star Game del 1985, quello in cui – si dice – fu l’ideatore della famosa congiura ai danni di Michael Jordan, invidioso per il clamore mediatico che ruotava attorno al rookie di Chicago .
Eppure, polemiche a parte, Thomas cresceva. I Pistons pure.
Erano una squadra giovane e combattiva, la cui principale arma era la difesa. Attorno alla splendida regia di Isiah ruotavano giocatori che univano un mix di tecnica, forza fisica, ottime capacità difensive e notevole cattiveria agonistica.
Dietro spiccava un backourt solido e capace.
Oltre a Thomas c’erano Joe Dumars, una guardia dalle spiccate doti difensive ma dotata di un brillante gioco in attacco e Vinnie Johnson, soprannominato “The microwave” dal bostoniano Danny Ainge, per la rapidità con cui, provenendo dalla panchina, sapeva dare il suo contributo alla partita, scaldandosi velocemente.
Ad un backourt di primissimo livello si aggiungevano il top scorer Adrian Dantley, veterano e stella affermata nel panorama NBA, i rimbalzisti Bill Limbeer, centrone bianco, duro ed intimidatore, e Rick Mahorn. Infine due ali difensive e aggressive quali Dennis Rodman e John Salley.
Ben presto quella squadra sarebbe divenuta famosa in tutto il mondo con il nome di Bad Boys.
Si è detto e scritto tanto su quei Pistons.
La loro cattiveria, la loro difesa, la loro aggressività, le loro personalissime regole, la prima delle quali recitava più o meno: “Se un avversario cade a terra mai aiutarlo a rialzarsi”.
Thomas con la sua faccia d’angelo e il sorriso a 32 denti sembrava l’anima candida della squadra, ma in realtà ne era l’ispiratore. Nel bene e nel male.
La sua feroce determinazione, la sua voglia di vincere, anche la sua cattiveria, erano il motore dei Bad Boys.
The baby-faced assassin, lo chiamavano. Perché prima ti sorrideva, poi ti uccideva.
Il sorriso più falso della NBA, dicevano di lui. Ma Thomas non se ne curava. Soffriva come tanti altri prima e dopo, la mancanza di un titolo. E questo acuiva la sua determinazione, la sua cattiveria in campo, la sua indiscussa leadership.
Già nel 1987 i Pistons arrivarono ad un soffio dalla finale NBA.
Vinsero 52 partite in stagione regolare, superarono al primo turno di playoffs i Washington Bullets per 3 a 0, rifilarono un secco 4 a 1 agli Hawks di Dominique Wilkins, quindi si ritrovarono ad affrontare in finale di Conference i terribili Boston Celtics di Larry Bird, che l’anno prima avevano vinto un meraviglioso titolo schiacciando ogni sorta di concorrenza.
La verve e la voglia dei Pistons contro il talento e l’esperienza dei Cetlics.
In pochi potevano immaginarlo, ma ne sarebbe nata una serie storica. Tirata, combattuta, sofferta, fatta di scontri davvero duri e sonore scazzottate .
Come da copione, Boston vinse le prime due gare al Garden, trascinata da Bird. Ma a Detroit successe l’incredibile.
122 a 104 il risultato di gara 3. Addirittura 145 a 119, quello di gara 4.
I Pistons avevano letteralmente asfaltato i Celtics. I ragazzi del Michigan realizzarono che la clamorosa vittoria nella serie non era poi così lontana, ma per farlo dovevano espugnare il palazzetto dei Celtics.
Giocarono una gara 5, al Boston Garden, intensa ed agguerrita fin dal primo minuto. Ad una sparuta manciata di secondi dalla fine, Boston era addirittura sotto di uno e Detroit aveva l’ultimo possesso. Quel possesso poteva voler dire vittoria in trasferta, seria ipotecata e dunque finale.
Poteva essere la fine di ogni speranza per la gloriosa squadra in maglia verde. Uscire sconfitti da quella gara 5 avrebbe significato andare a giocare la decisiva gara 6 a Detroit, dove i Celtics erano già stati massacrati nelle due precedenti partite.
Tutto molto bello se non fosse che Bird ancora una volta si rifiutò semplicemente di perdere.
Isiah Thomas effettuò la rimessa in gioco per Bill Laimbeer, ma un secondo prima che la palla arrivasse fra le mani del centro dei Pistons, Larry scattò e rubò la sfera.
Sembrò quasi che lo slancio per il recupero potesse trascinare il biondino in maglia 33 fuori dal campo, ma Bird, in una maniera incomprensibile ai comuni mortali, riuscì a mantenere un precario equilibrio sul filo della linea e a servire Dennis Johnson lanciato in transizione per il canestro della vittoria. 108-107, Celtics.
Serie sul 3 a 2.
Thomas che fino a quel momento era stato pressoché perfetto ed aveva disputato una serie magnifica, aveva commesso l’errore fatale che era costato la gara e forse la serie ai suoi Pistons.
Il giorno dopo era teso, frustrato. Ma ciò non spiega completamente quello che avvenne.
Il giovane rookie Dennis Rodman, dichiarò alla stampa che “Bird sarebbe stato soltanto un buon giocatore come tanti, se fosse stato nero”.
Alla frase del giovane Rodman nessuno prestò troppa attenzione. Sembrò a tutti la sparata idiota e razzista del classico ragazzo dal passato difficile. Ma quando a dire che la pensava alla stessa maniera fu proprio la stella dei Pistons, quell’Isiah Thomas, icona e simbolo della NBA nel mondo, quasi al pari degli stessi Magic e Bird, scoppiò la polemica.
Addirittura la NBA, in un’epoca in cui faceva di tutto per combattere qualsiasi forma di razzismo, arrivò a costringere il giocatore a volare fino a Los Angeles, dove Bird stava disputando le finali, per chiedere scusa all’avversario.
Scuse accettate, ma la pace fra i due non fu mai siglata. Quando Bird, parecchi anni dopo, assunse il ruolo di presidente ad Indiana, la prima cosa che fece fu licenziare il coach Thomas.
In piena bufera, i Celtics persero gara 6 a Detroit. La serie andò sul 3 a 3. Tutto era rimandato alla decisiva gara 7.
Al Garden, Bird si prese la sua personalissima rivincita. Segnò 37 punti, catturò 9 rimbalzi, smazzò 9 assist e recuperò 5 palloni, per il successo finale per 117 a 114 dei suoi Celtics. Una vittoria sofferta e difficile, maturata dopo una nuova clamorosa e terribile battaglia.
Se come uomo non ne venne fuori benissimo, da un punto di vista prettamente cestistico però, Thomas uscì rinvigorito da quelle serie.
I Pistons finalmente venivano visti come una squadra da titolo e Isiah come il loro fantastico, carismatico leader.
A conferma di ciò, l’anno dopo (1987-88) Detroit arrivò a disputare la finale NBA.
Nei Playoffs eliminarono dapprima in cinque gare i Chicago Bulls dell’astro nascente Jordan, fresco MVP di stagione e difensore dell’anno, in seguito, nella finale della Eastern Conference, la giovane Detroit aggredì letteralmente la solita Boston sul piano fisico. I Pistons si imposero due volte al Garden, rovesciarono subito il fattore campo e chiusero la serie in 6 gare, prendendosi la rivincita dell’anno prima.
Coloro che ormai erano noti in tutto il mondo come i Bad Boys erano pronti a giocare per l’anello.
Avversari i Los Angeles Lakers, campioni in carica e che non avevano fatto mistero di puntare alla storica doppietta. Anche quella fu una serie memorabile. A confrontarsi erano due filosofie agli antipodi, come nella migliore tradizione americana. Da un lato lo showtime delle stelle californiane, dall’altro la rabbia e la grinta dei cattivi ragazzi di Detroit.
Prima di gara 1 Thomas e l’amico fraterno Magic si abbracciarono e baciarono a centrocampo. Il primo bacio fra due avversari in una finale e che a suo modo fece scalpore, soprattutto fra le comunità nere.
Un già allucinato Rodman commentò a tal proposito: “Un bacio a Magic? No, se non sono almeno ufficialmente fidanzato con lui.”
Poi fu palla a due. Poi fu guerra
Nella prima partita, arrivò subito la sorpresa. Adrian Dantley mise 14 tiri su 16 tentativi e guidò la sua squadra ad imporsi per 105 a 93 al Forum, rovesciando il fattore campo.
Los Angeles apparve, come Chicago e Boston nei turni precedenti, incapace di sfuggire all’asfissiante, ineguagliabile e tuttora ineguagliata pressione difensiva di Detroit.
I Lakers però erano molto più esperti e forti di quei Bulls e molto meno logori fisicamente dei Celtics. Superato il primo momento di smarrimento, riuscirono a reggere la forza d’urto dei Pistons e la serie si mantenne molto equilibrata.
Gara 5, sul risultato di 2-2, si giocò al Pontiac Silverdome di Detroit davanti ad oltre 41.000 spettatori. I Lakers scesero in campo pronti a tutto. Partirono con un eloquente 12 a 0 ed un gioco fisico ed aggressivo. Ma metterla sul piano fisico contro quei Pistons equivaleva ad un suicidio collettivo.
Parole di Adrian Dantley: “Sembravano volessero provare a dimostrarci che sapevano giocare anche loro in maniera aggressiva. Sembrava volessero dirci ‘Hey, siamo capaci anche noi di giocare così!’ Ma quello non era il loro gioco. Era il nostro. Volevano batterci sul nostro terreno. Dopo poco, i loro uomini migliori erano tutti in panca con problemi di falli!”
Fu un massacro.
Dantley segnò 25 punti, 19 dei quali nel primo tempo. Vinnie Johnons segnò 12 dei suoi 16 punti complessivi nel primo tempo. Dumars realizzò 19 punti tirando col 70% dal campo. Thomas fece il resto, guidando i suoi alla vittoria come un magnifico direttore d’orchestra.
Gli ultimi minuti di gara furono giocati con tutto il pubblico di Detroit in piedi ad applaudire.
Sul 3 a 2 per i Pistons e il titolo a un passo, la serie tornò a Los Angles per le due gare decisive.
La storia era dietro l’angolo.
Ad inizio terzo quarto di gara 6 i Pistons erano sotto di 8 punti (56-48) quando Isiah Thomas diede via al suo personalissimo show. Decise di caricarsi la squadra sulle spalle e forzare la rimonta. Realizzò 14 punti consecutivi, in completa trance agonistica.
Mise dapprima due liberi. Poi realizzò un canestro dopo un rimbalzo offensivo. Quindi completò il tutto con quattro jump consecutivi dalla media, un tiro da sotto ed un lay-up.
E non era finita lì.
A poco meno di quattro minuti dalla fine del terzo periodo Thomas si scontrò con Michael Cooper, cadendo rovinosamente al suolo. L’infortunio che rimediò alla caviglia destra parve subito molto serio ed il numero 11 si accomodò in panchina dolorante.
Non ci rimase a lungo. Esattamente 35 secondi dopo entrò nuovamente in campo. Zoppicando, riprese la sua difficile battaglia solitaria contro i Lakers.
Mise altri 11 punti con una caviglia in condizioni rovinose, portando i suoi sul più due (81 a 79) e firmando una delle più grandi prestazioni di sempre.
In quel terzo periodo Thomas aveva realizzato 25 punti con 11 su 13 al tiro. Questo score rappresenta tuttora un record nella storia delle finali NBA per il maggior numero di punti siglati in un quarto.
Chiuse complessivamente la gara con 43 punti, 8 assist, 6 recuperi e l’attonito rispetto degli avversari e di tutto il mondo sportivo.
“Quello che ha fatto Isiah nel terzo quarto è stato incredibile. Non ho mai visto una cosa del genere” fu il commento dello stesso Riley nella conferenza stampa post-partita.
La superba prova del play dei Pistons non bastò tuttavia per portare il titolo a Detroit. Non quell’anno almeno. I Lakers vinsero di misura all’ultimo possesso quella gara 6 e riuscirono a imporsi anche nella successiva settima partita in cui Thomas scese sul parquet profondamente menomato dall’infortunio. Ma la rivincita sarebbe arrivata molto presto.
L’anno successivo i Pistons spedirono ai Mavs Adrian Dantley in cambio di Mark Aguirre. Chiusero la stagione con un record di 63 vittorie e 19 sconfitte. Sette giocatori della squadra segnarono più di 13.5 punti a partita in Regular Season, splendido tributo alle doti di playmaker di Thomas.
Ai playoffs Detroit sweeppò Boston in 3 gare e Milwaukee in 4. In finale di Conference c’erano i Bulls di Jordan.
Fu quella la serie del capolavoro difensivo di Detroit, in cui le famose e famigerate Jordan Rules, tese a fermare il giovane e straripante 23 dei Bulls, raggiunsero l’apice della perfezione.
Jordan si trovò isolato a lottare contro tutti. Gli altri Bulls e soprattutto Pippen furono annichiliti dai Bad Boys. I Pistons vinsero in 6 gare. Volarono alla loro seconda finale consecutiva. Ancora contro Los Angeles. Ancora contro Magic e Jabbar.
Ma questa volta non ci fu partita. I Lakers furono spazzati via per 4 a 0. Uno sweep che non ammetteva repliche e che vendicava ampiamente la sconfitta dell’anno prima. Era titolo. Il primo per Thomas. Il primo nella storia dei Pistons.
Al termine della quarta partita Magic non mancò di rendere omaggio al suo grande amico Isiah, abbracciandolo fraternamente. Qualche anno dopo Thomas avrà modo di rovinare anche questo rapporto quando alla notizia della malattia di Magic si lascerà andare a considerazioni poco carine sulla vicenda.
E il play dei Lakers, incredulo e ferito, preferirà allontanare quello che una volta era stato il suo più fidato amico. Ma questa è tutt’altra e ben più triste storia che nulla ha a che vedere con le nostre vicende sportive.
L’anno dopo i Pistons bissarono il successo. Il terzo back to back nella storia della lega, dopo i Celtics degli anni ’60 e i Lakers di due anni prima.
A metà stagione Detroit piazzò un parziale di 25 vittorie e 1 sconfitta, sbaragliando ogni sorta di concorrenza.
Nei playoffs un’altra cavalcata vincente. Un’altra vittoria in finale di Conference contro i Bulls e contro Jordan, stavolta in 7 sudatissime gate.
Poi di nuovo la finale, contro i Portland Trail-Blazers di Clyde Drexller che avevano eliminato i Lakers nella finale della Western Conference.
In difesa Thomas annullò il suo diretto avversario Terry Porter. Isiah andava molto orgoglioso delle sue doti difensive, sebbene spesso erano messe in secondo piano dai suoi grandi exploit realizzativi.
In attacco infatti fu semplicemente devastante. In gara 1 segnò 16 dei suoi 33 punti nell’ultimo quarto, portando i suoi alla vittoria in rimonta. In gara 4 ebbe 22 punti solo nel terzo quarto.
In gara 5 finì con 20 punti nel primo tempo spianando il successo ai suoi, per poi smistare l’assist della vittoria a Vinnie Johnson.
Chiuse la serie con 27.6 punti di media, 7.0 assist, 5.2 rimbalzi, 1.6 recuperi, il 54% dal campo in cinque partite.
Fu l’MVP della finale. Fu anche l’apice della sua carriera.
“Potete dire quello che volete su di me, ma non potete dire che non so come si vince” tuonò a fine serie il play dei Pistons.
Ma sin dall’anno successivo, Isiah tornò ad essere l’antipatico e odiato giocatore di sempre. I Pistons raggiunsero le finali di Conference per il quinto anno consecutivo, ma questa volta contro i Bulls la musica cambiò.
Jordan giocò da squalo. Era il 1991 e si apprestava a vincere il primo titolo della sua carriera.
Chicago sweeppò Detroit e Isiah guidò i suoi negli spogliatoi senza attendere la fine della partita, per non rendere omaggio agli odiati avversari. Fu un gesto che fece molto scalpore.
“Il momento più nero, quello di cui mi rincresce di più” commenterà in futuro Thomas. “Una palese mancanza di sportività . Se potessi rivivere quel momento mi comporterei in maniera diversa. In uno stato emotivo come quello in cui mi trovavo è stata una scelta sbagliata, ed un atteggiamento così è completamente contrario al mio carattere.”
Fatto sta che quell’atteggiamento costò a Zeke l’esclusione dal Dream Team di Barcellona.
Jordan che già mal sopportava Isiah per via della famigerata congiura all’All Star Game del 1985 quando il play dei Pistons lo estromise praticamente dal gioco durante la partita, non lo volle nel gruppo che si apprestava a conquistare il mondo in quel di Barcellona. Se poi ci mettiamo che il giocatore non era minimamente gradito per i ben noti motivi a Bird e da un po’ di tempo anche a Magic, e l’esclusione risultò inevitabile.
Ufficialmente Thomas rinunciò per problemi fisici. Qualche mese prima, il 14 dicembre del 1991, mentre andava a canestro contro Utah aveva subito una dura gomitata da Karl Malone, ventisei centimetri e una trentina di chili abbondanti in più, che gli aveva fracassato il cranio.
Isiah rimase sdraiato a terra, immobile per diversi minuti, mentre i medici si prendevano cura di lui. Ebbe bisogno di 40 punti di sutura. Saltò le successive tre partite, rientrò, riprese a giocare ai suoi livelli, ma gli anni più belli della sua carriera erano ormai alle spalle.
Zeke giocò altre due stagioni nella NBA, travagliate da infortuni vari. Durante l’ultima Regular Season, la 1993-94, disputò appena 58 partite. Al termine di quell’anno, ad appena trentatré anni, si ritirò. E lo fece da leader All Time dei Pistons in punti, assist, recuperi e partite giocate.
Complessivamente chiuse la sua carriera NBA con 18.822 punti e 9.061 assist in 979 partite di Regular Season, per una media di 19.2 punti e 9.3 assist a partita. Tuttora è il quarto di sempre per media assist alle spalle di Magic, Stockton e Robertson fra i giocatori non più in attività.
Finiva così la carriera del più grande piccolo di sempre.
Una definizione che Thomas stesso odiava.
Ebbe infatti modo di dire: “La gente dice sono il più grande nanerottolo di sempre. Poi si chiede se il più grande in assoluto sia stato Jordan o Magic o Bird. Ebbene, datemi i loro centimetri e abbassate loro alla mia statura, poi ne riparliamo circa il migliore di sempre!”
Period.
Ha esordito su Play.it nel 2004 con la rubrica “NBA Legendary Games”. Dopo una trentina di pezzi ha lasciato perdere le partite per dedicarsi alla nuova rubrica “25 Legendary Players”. Ha mollato anche questa sul più bello per mettersi a scrivere romanzi noir. Il successo, probabilmente vittima di paresi, gli ha arriso e sorriso.
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