Marino Vigna, «volate in viale Certosa e oro ai Giochi: in bicicletta andavamo come treni»


Marino Vigna, 86 anni a novembre, vinse la medaglia d’oro 
nell’inseguimento a squadre alle Olimpiadi di Roma 1960

di Massimo M. Veronese
Corriere della Sera - Milano
8 luglio 2024

Il campione: oggi puntiamo al podio in tutte le specialità

Marino Vigna è un gentiluomo del Novecento che non ha mai perso entusiasmi per l’amore della sua vita, la bicicletta, di pista o di strada che sia. Milanese, 86 anni a novembre, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma 1960 nell’inseguimento a squadre, ha smesso presto di correre, a 28 anni, dopo aver percorso 220mila chilometri e vinto classiche, tappe al Giro e al Tour. Poi è diventato una scuola: ct dei pistard, ha fatto 16 mondiali su strada sull’ammiraglia di Martini, ha guidato Eddy Merckx a vincere Giro e Tour e Vittorio Adorni al titolo mondiale. Un milanese che non dimentica Roma.

- Marino, lei è un figlio d’arte…

«Si, anche mio padre Ernesto era corridore: vinse nel 1920 il campionato italiano dilettanti insieme a Ugo Bianchi, Pietro Bestetti e Angelo Guidi, nonno di Johnny Dorelli. Aveva una bottega alla Cagnola dove vendeva e aggiustava biciclette, ero il suo ragazzo di bottega e la sera studiavo da meccanico».

- Dove vivevate?

«In una casa d’angolo di via Pacinotti, dove c’era il negozio di papà. Era il rione dei ciclisti: ci vivevano Maspes, Bonariva, Brioschi, Poiano, Rancati, poi arrivò (Sante) Gaiardoni. E Longo che quando non correva sfornava michette e ciabatte in un panificio».

- Da ragazzo si allenava a fare le volate in viale Certosa…

«Alla fine degli anni 50 Milano era fatta di campi e fossi e quello stradone era perfetto per correre. Che tempi. Oggi sarebbe un suicidio. O ci arresterebbero subito»

- Come è arrivato alla pista?

«All’inizio non mi piaceva, avevo paura dei curvoni che erano altissimi. E sulla pista del Palazzo dello sport, che allestivano alla Fiera di Milano tra novembre e febbraio, c’erano dei veri banditi che quando mi vedevano timidino sui pedali facevano di tutto per farmi scivolare».

- E poi?

«Organizzarono delle gare ad handicap, il più scarso, cioè io, partiva davanti e quelli bravi dietro, ma non mi prendevano mai. Lì ho capito che quella poteva essere la mia strada».

- Il quartetto che vince le Olimpiadi nasce a Milano…

«I miei tre compagni, Arienti, Testa e Vallotto, avevano vinto i Giochi del Mediterraneo 1959. Io entrai nel quartetto di prepotenza un mese prima delle Olimpiadi perché quell’anno vincevo dappertutto, su strada e su pista: ero imbattibile».

- Con 21 anni era il più giovane: che ragazzi eravate?

«Quattro bravi ragazzi, due lombardi e due veneti, che stavano bene insieme. Vallotto è morto giovanissimo per una leucemia, Arienti, che era di Desio e a cui ero legatissimo, ci ha lasciato a febbraio. Siamo rimasti io e Testa ma ci vediamo poco».

- Eravate il quartetto da battere ai Giochi.

«Ai Giochi l’Italia della pista vinceva da anni e la prima volta che ci hanno messi assieme abbiamo fatto il record del mondo al Vigorelli. Sono passati però 62 anni prima di rivedere un altro oro: a Tokyo 2020 con Ganna, Lamon, Milan e Consonni».

- Siete partiti male però…

«C’era la pista bagnata e Testa si era un po’ spaventato: aveva visto la ruota di Arienti scivolare ma in mezzo giro abbiamo risolto il problema. Eravamo un treno in corsa».

- Fu un anno triste, l’anno in cui morì Fausto Coppi.

«Ho fatto in tempo ad allenarmi con lui al Palasport l’anno prima. Ma non dimentico quando il ds di Coppi, Giovanni Tregella, fece salire me e mio padre sulla sua macchina. Avevo 10 anni, stavo seduto vicino a Coppi e mi sentivo in paradiso».

- Non c’è più il Velodromo Olimpico dove avete vinto.

«Lo hanno demolito nel 2008: per me è stato un colpo al cuore».

- Tutti ebbero una grande accoglienza al ritorno.

«Io zero. Sono sceso alla Stazione centrale ho preso il tram e sono andato a casa. E il giorno dopo ero al lavoro».

- Dell’atmosfera di quella Olimpiade cosa ricorda?

«A parte la fiamma olimpica che vidi passare sull’Appia Antica poco o niente. Eravamo distaccati alle Frattocchie, lontano dal Villaggio olimpico dove andai un giorno soltanto. C’erano attori, cantanti, Maurizio Arena, Claudio Villa, e ristoranti sempre aperti. Il mio amico Sandro Lopopolo, argento nei pesi leggeri di pugilato, rimase choccato nel vedere cosa mangiavamo noi ciclisti. Lui era a stecchetto».

- Come sta oggi la pista italiana?

«È rinvenuta da qualche anno perché prima era morta. È rimasta viva grazie e Silvio Martinello e alle donne».

- Siamo pronti per il podio?

«Il ct Marco Villa ha fatto un gradissimo lavoro. Possiamo andare a medaglia in tutte le specialità».

- Il ciclismo è sempre il suo mondo?

«Fino a due anni fa ho lavorato alla Bianchi, poi il Covid e gli anni mi hanno consigliato di smettere. Mi dedico alla mountain bike, sulle stradine lontane dal traffico. Ma bisogna tenere gli occhi aperti soprattutto sulle rotonde».

- Che cosa le manca della Milano da corsa?

«La Sei Giorni di una volta, con le gare infinite e il ristorante al centro della pista. Una volta mi si sgonfiò una gomma in una gara dietro le moto e piombai a tutta velocità sotto i tavoli del ristorante. Fu il mio arrivo più fragoroso… ».


8 luglio 2024 ( modifica il 8 luglio 2024 | 08:12)
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