FOOTBALL PORTRAITS - Piqué & Puyol, la strana coppia


di Christian Giordano, 15 marzo 2016 

El petit capità 

Carles Puyol è un campagnolo di La Pobla de Segur, comarca di Pallars Jussà, profonda Catalogna, a quasi tre ore d’auto da Barcellona. Secondogenito di Josep e Rosa, proprietari terrieri e di vacche, ha studiato come il fratello Josep Xavier alla locale escola de la Sagrada Família.

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Putxi, di due anni più grande, era forse più tecnico. Giocava da attaccante, ma non aveva la stessa feroce determinazione del fratello. Una filosofia, quella del non mollare mai, che l’unico Puyol ad aver sfondato s’è poi tatuato sulla pelle. Sul bicipite sinistro «El poder está en la mente» e «Sólo resisten los más fuertes». Sul basso ventre «querer es poder»: amare (o volere) è potere.

Tifoso devoto, da piccolo Puyi se il Barça perdeva si chiudeva in camera sbattendo la porta e andava a letto senza cena. La sua fortuna è stata trovare un allenatore del posto, Jordi Mauri, testardo almeno quanto lui, col quale mettersi d’accordo per allenamenti-extra nelle gelide e buie mattinate invernali.

In Barça – The Making of the Greatest Team in the World di Graham Hunter, giornalista scozzese assai embedded e ormai spagnolo d’adozione, Mauri ha rievocato due aneddoti in particolare.

«Ci allenavamo usando vecchi calzettoni riempiti con dieci chili di sabbia e annodati assieme. Carles se ne caricava uno per spalla e si ammazzava di piegamenti. Faceva un freddo cane, la tecnica di allenamento era un po’ alla buona e i suoi compagni sparirono subito, ma lui era motivato. Con i più giovani me la sarei pure cavata, ma gli altri della sua età non sarebbero più tornati. Lui sì».

«Una volta, giocando a calcio tennis, si tuffò di testa per salvare un pallone. Si rialzò che era una maschera di sangue, furibondo per non esserci arrivato. La maggior parte dei 14enni sarebbe rimasta lì a terra a lamentarsi per il dolore. Lui invece era già ultra-competitivo, un purosangue che imparava in fretta».

In zona c’era soltanto una squadra senior, così Puyol giocava per strada, sette contro sette o fútbol sala (come in Spagna chiamano il futsal). Il guerriero futuro simbolo dell’epoca d’oro del calcio spagnolo non avrebbe giocato a undici o su un terreno regolamentare prima dei quattordici anni.

Quando arrivò la chiamata del Barça, dopo due stagioni con il Pobla de Segur e tramite l’allenatore Joan Martínez Vilaseca, al provino erano una trentina. «Non avevo idea se stessi giocando bene o no», ricorda Puyi. «Non ci dicevano granché, ma mi sono goduto ogni istante. Già solo indossare quella maglia era un sogno».

Ci sarebbe voluto un decennio per vederlo alzare un trofeo con la prima squadra. La più grande epopea nella storia del club era in gestazione. Víctor Valdés e Xavi erano già nel vivaio, Andrés Iniesta era già stato selezionato; due stagioni dopo, con Piqué, sarebbe arrivato, da Arenys de Mar, un altro ragazzino di dieci anni, Francesc Fàbregas.

https://www.youtube.com/watch?v=SI4uiXwMEmA

Il Leone. E non solo per la facile iconografia della criniera al vento.

Cuore di Capi

I leggendari salvataggi in tuffo, i recuperi in tackle tanto acrobatici quanto in apparenza disperati che sarebbero diventati marchio distintivo di Puyol risalgono ai suoi esordi come baby portiere-kamikaze. Rosa era così preoccupata per quel suo benedetto figliolo che si buttava impavido anche sulle superfici più dure, che lo portò dal medico di famiglia. Senza saperlo, quel dottore gettò le fondamenta delle difese euromondiali di Barcellona e Spagna: avvisò che il ragazzino doveva appendere i guanti se non voleva rischiare seri problemi di sviluppo alla colonna vertebrale.

A 17 anni, la stagione prima che Johan Cruijff venisse esonerato, quel grezzo campagnolo entrò nel vivaio del Barça. Il club della sua vita. Era il prototipo del giocatore di squadra: non tanto alto ma di grande elevazione, non così talentuoso ma determinato a lavorare su ogni aspetto del gioco. Nelle giovanili ha coperto quasi ogni ruolo, dal portiere al centravanti, e in prima squadra per un paio d’anni farà pure l’ala e il terzino.

Posh Geri

Gerard Piqué invece è cresciuto in città, quartiere-bene di Pedralbes, da nobile rampollo di sangue blu. O meglio: blau-sangre. Il nonno materno, Amador Bernabéu (sic), è stato per 23 anni il dirigente che ha rappresentato il club a livello nazionale (Federcalcio) e internazionale (UEFA e FIFA), prima di tornare, durante la presidenza di Sandro Rosell, al vecchio incarico.

Amador regalò al nipote la tessera di socio numero 48.212 il giorno della nascita, 2 febbraio 1987, ed era ancora nel board quando Geri, a 17 anni, passò al Manchester United.

Piqué è cresciuto al Camp Nou, a dieci minuti a piedi da casa. Ci passava il tempo che voleva, giocando nelle giovanili, osservando la squadra B o quella di basket, altra sua passione come il football americano.

https://www.youtube.com/watch?v=t3TuP-3wiAM

Gerard, quando para, è spigliato. In campo gioca sempre facile, ma con grande carisma.

Nella sua infanzia felice e agiata, era scampato a un incidente domestico che sarebbe potuto costargli non solo la carriera, ma la mobilità. Persino la vita. Nell’estate 1988 era dai nonni nella loro seconda casa, a Blanes, in Costa Brava. L’abitazione era appena stata ristrutturata e il balcone al primo piano aveva ancora la ringhiera provvisoria. Il baby Piqué, di un anno e mezzo, stava inseguendo un pallone e la attraversò, finendo qualche metro sotto. Si scatenò un pandemonio. Le strutture mediche del posto non erano attrezzate per casi di traumi cranici infantili. I nonni si precipitarono quindi a Barcellona, ma in preda al panico lo portarono all’ospedale sbagliato. Fu solo quando fu trasportato con la massima urgenza nell’istituto dove sua madre lavorava che poté ricevere cure adeguate. Restò in coma qualche ora, poi recuperò appieno.

A differenza di Puyol, Piqué ha cominciato presto: nel Torneo Special, categoria riservata ai bambini di sei e sette anni. Ai tempi il Barcellona prendeva anche ragazzini di non particolare talento ma che volevano comunque misurarsi nel calcio organizzato. Pochissimi sarebbero poi stati invitati a La Masia per i provini, e Piqué fu uno di questi.

«Ricordo che dovetti sostenerne uno come attaccante», ricorda. «Segnai un paio di gol e vincemmo 3-1. La mia vita all’epoca non era altro che fare i compiti, giocare a calcio e divertirmi. Non volevo né avevo bisogno d’altro. Cercavo di non illudermi di poter giocare, un giorno, nel Barça, perché avevo visto tanti ragazzi che non ce l’avevano fatta e non volevo finire a vivere di sogni frustrati e sentirmi come se avessi fallito».

Padri

Joan Piqué, suo padre, più che discreto calciatore dilettante, dopo la laurea in legge era diventato dirigente di una ditta di costruzioni. Mamma Montserrat, per tutti Montse, è primario dell’Área de Daño Cerebral Adquirido presso l’Institut Guttmann, centro di riabilitazione neurochirurgica inaugurato il 27 novembre 1965 come primo ospedale di Spagna per lesioni spinali e danni cerebrali acquisiti.

Montse a volte portava con sé al lavoro il figlio per ricordargli che al mondo c’erano persone molto meno fortunate e che avrebbe dovuto fare buon uso delle tante qualità avute in dono.

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Joan Piqué ha l’aria di uno che sapeva quanto in alto sarebbe potuto arrivare suo figlio.

Josep Puyol se ne è andato nel novembre 2006, sei mesi dopo il giorno più bello della carriera del figlio che il 17 maggio aveva alzato da capitano la Champions League a Parigi. Stava costruendo una strada nel terreno di famiglia. Era alla guida di un escavatore quando, alla fine di una dura settimana di lavoro, attorno alle cinque del pomeriggio, il mezzo si ribaltò, schiacciandolo. Aveva 56 anni.

Carles era in viaggio per la trasferta a La Coruña contro il Deportivo. Appena saputo della tragedia tornò subito indietro; guidò per tre ore fino alla sua piccola, affranta comunità.

I mesi seguenti per lui furono terribili, in campo e fuori.

Difficoltà

La ricostruzione della squadra avviata con Frank Rijkaard era stata avvincente. Il Camp Nou vibrava per quel calcio straordinario, ma dopo la Champions alzata nel 2006 nel gruppo qualcosa si era rotto. Il declino psicofisico della squadra era stato quasi verticale. E la responsabilità che, da capitano, toccasse a lui il ruolo di bad cop dell’allenatore, Puyi la considera tuttora uno dei punti più bassi nella sua carriera.

https://www.youtube.com/watch?v=YWCO54aujBQ

Amici per sempre

Nel frattempo Piqué, futura parte della soluzione a quella crisi, era finito a interrogarsi sul suo futuro nel Lancashire.

Una delle sue maggiori virtù è sempre stata la schiettezza. Più volte ha raccontato come sin lì avesse vissuto un’esistenza da mimado, che in spagnolo significa viziato, privilegiato. A Manchester però aveva scoperto cosa significasse ritrovarsi da solo in un appartamento in un altro paese, senza conoscere bene la lingua, a crescere in fretta e a lottare per inseguire un sogno.

Del resto, le ragioni per cui in tanti lo avevano sempre visto come uno fortunato, un pijo (fighetto) nato con la camicia, un ragazzino snob, sono evidenti: alto, bello, intelligente e talentuoso, allevato in una famiglia-bene, istruita, e spronato prima di tutto ad andare bene a scuola; e poi selezionato per l’eccellenza dal club per cui tifava da bambino. 

https://www.youtube.com/watch?v=XXKb7Skp8mk

Piqué e Fàbregas erano spesso complici di bravate, e in un documentario televisivo hanno ammesso di essersi cacciati nei guai rubando benzina dalle auto parcheggiate. Una volta, “pattugliando” la spiaggia di La Barceloneta e individuato un bersaglio, furono beccati dal proprietario dell’auto che, dal ristorante di fronte, si precipitò a dar loro la caccia in un furioso inseguimento.

La filosofia calcistica del Barça all’inizio degli anni Zero non era così ben delineata come invece è oggi. L’idea instillata da Johan Cruijff di promuovere presto in prima squadra talenti del vivaio era una moda che andava e veniva. Molto più importante del “se sei abbastanza bravo, sei grande abbastanza” era il concetto che i giovani più promettenti dovessero essere spinti al di fuori della propria zona di conforto. E testati a un livello superiore con compagni più esperti e avversari più grossi e più aggressivi, perché ragazzi della classe di Piqué, Fàbregas e Messi spesso si stancavano di vincere con margini in doppia cifra.

Louis van Gaal, allora allenatore della prima squadra, una sera andò a cena a casa Piqué. Quando gli fu detto che il nipote di Amador giocava nelle giovanili, l’olandese, vedendo quanto esile fosse quel ragazzino, sbottò: «I centrali devono essere robusti», e con uno spintone spedì lo sbalordito 12enne lungo disteso sul pavimento del salotto.

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Che prezzo ha la fiducia?

Nel 2012 Pep Guardiola aveva già promosso in prima squadra Sergio Busquets, Pedro, Thiago Álcantara, Andreu Fontàs, Jeffrén, Marc Bartra, Jonathan Dos Santos, Martín Montoya, Isaac Cuenca e Rafinha, ma il ricambio generazionale non era stato all’altezza.

Più volte Piqué ha accennato al fatto che se durante la sua trafila nelle giovanili blaugrana ci fosse stata più meritocrazia, forse non se ne sarebbe mai andato dalla Catalogna.

Nell’estate 2003 Fàbregas è diventato il più giovane debuttante in prima squadra nella storia dell’Arsenal. Sei mesi dopo, l’allora presidente blaugrana Joan Laporta s’infuriò alla notizia che lo scippo stava per ripetersi con Piqué, cercato dal Manchester United e dal solito Arsenal. Stavolta il Barça non avrebbe perso un’altra gemma senza almeno lottare per tenersela. Per i capiscout dei grandi club inglesi (Mick Brown o Martin Ferguson per lo United, Steve Rowley e Francesc “Francis” Cagigao per l’Arsenal) era relativamente facile scovare giovani talenti dei campionati Juvenil visionandoli a Sabadell, Girona, Tarragona o in altri campetti municipali in giro per la Spagna. Nonostante l’indignazione di Laporta, a incidere molto sulla partenza di Piqué fu il trattamento che la società gli aveva riservato. Scaricato dalla Juvenil A, squadra di cui era stato leader e che avrebbe poi costituito l’ossatura del Barça B, fu retrocesso alla Juvenil B dopo che per due mesi gli fu impedito di giocare. Quel trattamento costerà al Barcellona, per riprenderselo, nell’estate 2008, 6,3 milioni di euro.

«Il Barça non voleva discutere del contratto. Mi dissero solo che appartenevo a “loro”, come se fossi uno schiavo», racconterà allo stesso Hunter. «E siccome non volevano trattare con me, con i miei agenti o con lo United, c’è voluto un procedimento FIFA per trovare un accordo di compensazione, raggiunto il quale ero libero di trasferirmi al Manchester United».

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Il cambio di espressione tra l'intervista dopo il trasferimento al Manchester e quella al ritorno testimonia la crescita di Gerard.

«Quando sei un giovane e la società dimostra nei fatti che non ti vuole, allora devi andare a guadagnarti da vivere altrove. A volte cercare nuovi pascoli può essere utile per essere valorizzato meglio e magari, un giorno, poter ritornare».

Nonno Amador strappò più che un buon accordo, ma se la legò al dito: «Gerard era al club dai nove anni ma da quando il Barça aveva scoperto, in dicembre, che United e Arsenal erano interessate a lui, gli ha reso la vita impossibile. I responsabili del vivaio sapevano di giocare con i sentimenti di un 16enne, eppure lo punivano facendolo scendere di livello e poi non facendolo giocare».

Quattro anni più tardi Laporta avrebbe dovuto pagare a caro prezzo un campione che si sarebbe potuto crescere in casa. Piqué in Inghilterra era maturato. In più si era irrobustito: nove chili in più di soli muscoli.

«Era stata un’esperienza del tutto nuova per un ragazzo come me, abituato a giocare ogni partita, dover all’improvviso competere in una squadra di campioni straordinari. Abitavo in una casetta e a volte mi ritrovavo a dirmi: “Non ne vale la pena”. Ma ho imparato talmente tanto in quegli allenamenti al Manchester United. Non bastava più essere alto e calciare bene il pallone. Ho dovuto imparare a usare tutto il corpo, a difendere senza palla. E superare i momenti di solitudine. Telefonavo a mia madre per dirle che tutto andava bene, ma ero sempre lì che trattenevo le lacrime. Mi mancava tantissimo ma non potevo dirle “Mamma, darei qualsiasi cosa per tornare a casa domani stesso, non ne posso più di tutto questo, e mi manchi”».

Piqué ha spesso parlato di Ferguson come di un «secondo padre»: se non fosse stato il Barça a (ri)chiamarlo, forse sarebbe rimasto con lui a Old Trafford come cambio di Nemanja Vidić o di Rio Ferdinand.

«È stata dura, non capivo perché non giocavo. Davanti a me avevo due grandi centrali, ma è stata comunque una grande esperienza. Arrivai là a diciassette anni e tornai a Barcellona a ventuno. Il Gerard che tornava era molto diverso da quello che se n’era andato». Lo dice così, parlando in terza persona.

Anche la stagione in cui lo United lo mandò in prestito al Saragozza, quella del 2006-2007, lo aveva aiutato a crescere. Giocava con regolarità in campionato e in coppa, a volte al centro della difesa, altre come pivote di centrocampo, e in trasferta dormiva in stanza con il compagno di reparto Gaby Milito.

https://www.youtube.com/watch?v=AgYE-_D1o-Y

Quell’anno il Saragozza del terribile duo batté alla Romareda il Barcellona, il Siviglia e il Villarreal, pareggiò con il Real Madrid e finì sesta, a sei punti dalla qualificazione alla Champions League. La stagione seguente, Gabi Milito andò al Barcellona e Piqué tornò a Manchester. Il Real Saragozza retrocesse.

«Dimostrai a me stesso che ero pronto per giocare con continuità in uno dei top campionati europei», ricorda Geri. La sua ultima stagione allo United fu però agrodolce. Tre presenze in Champions e due gol: uno in casa alla Dinamo Kyiv, l’altro all’Olimpico contro la Roma.

Per riaverlo, nel febbraio del 2008, il Barça contattò lui, i suoi agenti della IMG e infine il Manchester United. Ferguson credeva nelle potenzialità di quel centrale dalle potenzialità ancora tutte da esplorare, ma la coppia Vidic-Ferdinand era eccezionale e come back-up aveva Jonny Evans, John O’Shea e Wes Brown.

Ad aprile i due club s’incontrarono in semifinale di Champions. Alla vigilia della gara di andata, al Camp Nou, Piqué era in forma e si sentiva in corsa. Poi, il giorno della partita, Vidić non ce la faceva e Piqué era sicuro di giocare. Ma dopo la consueta siesta pomeridiana dello United, Ferguson andò da lui per dirgli che non lo avrebbe schierato, perché entro un paio di settimane quasi certamente Piqué avrebbe firmato per gli avversari. A quanto pare non sarebbe stato opportuno.

«Fu una delusione immensa», ammette Piqué. «Rispettavo molto Sir Alex, e anche se mi faceva giocare poco avevamo un ottimo rapporto. È sempre stato diretto con me. Ci parlavamo apertamente ed io non ho mai avuto problemi. Poi arrivò l’offerta del Barcellona, gli dissi che volevo tornarmene a casa, al club della mia vita. Lui capì. Provò ancora a convincermi, ma alla fine decisi di tornare. Era la miglior cosa da fare».

Coppia di fatto

Come il centrale con cui tornava a far coppia, anche Puyol in principio non sembrava così amato al club di cui sarebbe presto diventato simbolo.

Una caratteristica che unisce Piqué a Puyol è anche la diffidenza con la quale il Barcellona li ha accolti, la ritrosia con la quale ha deciso di puntare su di loro agli esordi.

L’estate 1999 era stata decisiva per Puyol. Málaga e Siviglia lo volevano e l’allora direttore sportivo Lorenzo Serra Ferrer rispose loro che un’eventuale offerta per quell’esterno del Barça B sarebbe stata presa in considerazione. In allenamento con la squadra B, Puyol s’era in messo in porta per scherzo e si era infortunato per davvero a una spalla – in modo lieve, ma tale da rallentarne i movimenti. Fu in quel periodo che decise di restare e di lottare per conquistarsi il posto.

L’esordio, sotto van Gaal, che in Puyi riponeva più fiducia di quanta ne avesse Serra Ferrer, arrivò dalla panchina nell’ottobre 1999. Un tempismo simbolico, perché il centenario del Barça coincise con una monumentale crisi del club in campo e fuori: Puyol sarebbe presto diventato l’icona della rinascita blaugrana.

https://www.youtube.com/watch?v=W6yBSO8SbCs

Retrospettiva: Puyol commenta Puyol alla Coppa del Mondo 2010. Ma cosa fa al minuto 1.10 contro l'Ucraina?

Anche a causa della politica simil-galáctica dell’epoca – tanti stranieri strapagati – erano relativamente pochi i prodotti de La Masia arrivati in prima squadra: solo Xavi e, con molto meno spazio, Pepe Reina e Gabri.

Il giorno del suo esordio https://www.youtube.com/watch?v=Pjv-ENK_rfo il capitano era Guardiola: nove anni dopo – nella conferenza precedente lo storico 6-2 sul Madrid al Bernabéu, alla prima stagione da allenatore – si sperticherà in elogi: «È un esempio. Posso metterlo terzino destro, terzino sinistro, centrale di destra o di sinistra e non solo non si lamenta mai, ma non fa mai un passo falso».

Dentro, Puyi aveva la sua forza più grande, le parole di papà Josep: «Dai tutto per realizzare il tuo sogno, perché se alla fine non riuscirai, almeno non ti resterà la sensazione che sia stata colpa tua».

Battesimo del fuoco


L’esordio in casa, undici giorni dopo quello assoluto in maglia numero 32 contro il Valladolid, fu il terribile Clásico del 13 ottobre 1999, l’ultimo del primo secolo blaugrana. Quel Real Madrid, rimpiazzato a metà stagione John Toshack con Vicente del Bosque, avrebbe chiuso l’annata alzando la Champions. Puyol entrò al posto di Sergi al 38’. Finì 2-2 col Barcellona in dieci dal 56’ per il rosso a Kluivert e il ditino di Raul, doppietta, che nel finale silenziò la bolgia del Camp Nou. Tipico di Puyi: a fine gara andò dritto verso Raúl per scambiarsi le maglie. «Non m’importa cosa pensano gli altri. Io faccio a modo mio».

Figo aveva fatto onde, e non solo per il gol del 2-1 blaugrana. Dal Madrid arrivò una offerta di quelle che non si possono rifiutare: un rampante immobiliarista di nome Florentino Pérez, in caso di vittoria alle presidenziali merengue del 2000 promise che avrebbe pagato la clausola-record di recesso (37 milioni di sterline) e avrebbe portato il portoghese dall'altra parte della barricata. Oggi è storia, ma all’epoca fu un terremoto.

https://www.youtube.com/watch?v=7I6Bg3N3DHY

Il giorno del ritorno


Tre anni dopo il primo Clásico di Puyol, il 23 novembre 2002 il Madrid tornava a Barcellona da campione d’Europa e con Figo in blanco. Lorenzo Serra Ferrer, succeduto a van Gaal, era convinto che asfissiare la creatività del portoghese, specie in un catino ribollente di astio, avrebbe ripagato. E così lo affidò a Puyi.

«Mi ha detto di marcarlo a uomo e di seguirlo dappertutto. È stato stancante, ma ha funzionato perché ero concentratissimo. Non penso che Figo abbia inciso molto, ma a prescindere dal risultato ha dimostrato di essere quel grande giocatore che è. L’atmosfera era incandescente, ma non si è mai nascosto, si è sempre proposto per ricevere palla e mi ha fatto lavorare duro».

La missione compiuta su Figo, una serie di ottime prestazioni nonostante il pessimo Barça di quella stagione e soprattutto la fedeltà ai colori ne fecero l’idolo dei tifosi.

Il pagamento della clausola di recesso di Figo aveva rimesso in sesto le casse del club ma ne aveva distrutto l’immagine. Pérez ci avrebbe riprovato anche con Cocu, Kluivert e persino Puyol.

«Non posso dire di non aver mai pensato di andarmene», ammetterà anni dopo. «C’è stato un periodo in cui non solo non alzavamo trofei, ma nemmeno c’era la sensazione che ci stessimo provando. Mi stavo stancando sul serio e pensavo di andare via, ma alla fine decisi di restare e di continuare a lottare. All’epoca sulla stampa c’erano tante chiacchiere su di me che avrei firmato per loro, ma non ho mai incontrato nessuno del Madrid. Non succederà mai».

Ci sono due immagini-simbolo di altrettante ere attraversate da Puyol.
La prima risale al 23 ottobre 2002, mentre tutto intorno a lui sembrava cadere a pezzi. Al Camp Nou, contro il Lokomotiv Mosca in Champions, sullo 0-0 Roberto, il portiere argentino del Barça, esce in modo goffo incontro a James Obiorah lanciato in campo aperto. Il centravanti nigeriano lo aggira e a quel punto, dai trenta metri, si trova davanti la porta spalancata col solo Puyi che sprinta a tutta verso il centro per andare a chiuderlo. Sul dischetto, mani dietro la schiena per evitare il rigore, Puyol tiene lo sguardo fisso sui piedi di Obiorah per intuirne la prossima mossa. In una frazione di secondo, Obiorah tira e il catalano si lancia sulla sinistra e respinge col petto. Anzi con lo stemma del Barça. Sul cuore. Il Camp Nou erutta. Indimenticabile.

https://www.youtube.com/watch?v=_9SeI1HbwUU

«Ho pensato alle mie antiche doti di portiere e ho provato non a salvarla con le mani, è stato puro istinto».

Il Barcellona poi vinse quella partita, lanciandosi in testa al girone. E a Bruges, con la qualificazione agli ottavi in tasca, van Gaal fece esordire un manipolo di canterani, compreso un certo Andrés Iniesta.

L’altra immagine è di nove anni dopo. Siamo a Montecarlo, tradizionale sede del sorteggio dei gironi della Champions 2011-12 e del match di Supercoppa Europea, in programma la sera successiva. È un evento di gala, tutti indossano abiti da cerimonia. Non Puyol, che sale sul palco con la divisa da riposo del club – maglietta gialla a polo, bermuda grigi estivi a quadrettoni fino al ginocchio.

https://www.youtube.com/watch?v=JGHwfV3njF4

«Ero a casa e guardavo tutti i bei vestiti che avevo ma ho deciso niente mi avrebbe fatto sentire più a mio agio che indossare qualcosa del Barça con lo stemma sul cuore». Xavi e Messi, elegantissimi, sembrano increduli.

La morte del padre ha cambiato Puyol radicalmente. Non riuscendo a superarne la perdita, ha trovato conforto nel libro The Tibetan Book of Living and Dying di Sogyal Rinpoche. Ne è rimasto così affascinato da trascorrere un periodo alla Tibet House e attivarsi per prendere contatto con il venerabile Thubten Wangchen, rappresentante del Dalai Lama in Catalogna. Puyi ha incontrato il Dalai Lama, in visita ufficiale a Barcellona, nel 2007 e ancora oggi sostiene la causa del Tibet per l’autonomia dalla Cina. «Mi sono identificato con il popolo tibetano. Mi piace la loro filosofia e il loro modo di vedere il mondo».

Puyol ha cambiato anche stile di vita. Ha abbracciato una cultura di meditazione, perdono, tranquillità e dignità che sul piano fisico associa pilates e yoga ai normali allenamenti; abitudini che ne hanno allungato di parecchio la carriera, come era accaduto a Kareem Abdul-Jabbar nella seconda parte della sua ventennale carriera NBA.

Una nuova èra

Spiegare la simbiosi in campo di Puyol e Piqué, per certi versi, è più facile che tracciarne le parabole individuali cercando di individuarne il punto di incidenza. C'è stato un tempo in cui Puyol sembrava non divertirsi se non correva e saltava dappertutto, e magari in modo dissennato. Con gli anni si è adattato. Sotto la guida di Rijkaard, Puyol ha imparato a contare ancora su ritmo, senso dell’anticipo e potenza del tackle, ma in modo più controllato.

«Giocammo un sacco di partitacce. Perdere con il Siviglia in Supercoppa Europea fu l’inizio della fine, ma allora non lo sapevamo. Poi la finale del Mondiale per club a Tokyo, ma la peggiore fu la sconfitta al Bernabéu [4-1 il 7 maggio 2008]. Avevamo toccato il fondo. La guardia d’onore per loro, l’imbarcata presa in partita: tutto ciò che avevamo costruito stava crollando. Fu la peggior partita della mia vita e sembrava non finire mai. Loro che ci credevano, noi che soffrivamo – fu la fine di un’era».

L'anno zero della Nuova Era per la difesa del Barça coincide con l’estate 2008, con l’arrivo del suo ex capitano Guardiola in panchina e di Piqué come centrale di destra accanto a Puyi.

«Con l’arrivo di Gerard, eravamo tutti più distesi – ricorda Xavi – Era giovane, pieno di gioia di vivere e si è inserito subito. All’inizio voleva divertirsi, ma nel calcio non è così che funziona. Puoi anche fartela una risata, ma è un lavoro. Sottostiamo a grandi pressioni e ha dovuto adattarsi. Da capitani, Valdés, Puyol ed io glielo abbiamo spiegato, ma lui ha imparato tanto e alla svelta».

Piqué e Puyol sono amici, e il modo in cui amano prendersi gioco a vicenda, o si fanno alleati nello scherzo, è arcinoto. Durante i festeggiamenti post-mondiale 2010 a Madrid, sono stati loro a preparare la “sorpresa” per Fàbregas, giocatore dell’Arsenal, infilandogli a tradimento una maglia del Barça mentre Pepe Reina lo presentava alla folla adorante. Scherzetto all’epoca poco apprezzato a London Colney.

https://www.youtube.com/watch?v=crxBus2d1-0

Quello tra Piqué e Cesc, poi, è un bromance che meriterebbe un lungometraggio dedicato.

Una volta, non convocati in Copa del Rey contro il Ceuta e seduti accanto in tribuna al Camp Nou, Piqué fu beccato dalle telecamere mentre gettava semi di girasole a Juanjo Brau, il capo preparatore atletico del Barça. E più quello s’irritava, più Piqué fingeva di prendersela con Puyol.

https://www.youtube.com/watch?v=ULzxQCfuCrI

«Siamo arrivati al punto in cui non serve parlarci» confidò Piqué al solito Hunter nel media day pre-finale di Champions 2011. «Ci basta scambiarci uno sguardo per capire cosa fare in una data situazione. Ricordo una partita in cui stavamo vincendo di quattro o cinque gol a pochi minuti dalla fine. Un avversario si era infortunato, la barella stava entrando e mi avvicinai per vedere di chi si trattasse. Un attimo dopo, vidi Puyi che m’inveiva contro. Mi piombò addosso come un falco, mi urlò di lasciar stare, di tornare nella mia posizione e di concentrarmi. Lui non molla mai».

«La concentrazione è fondamentale nel calcio e ammetto che talvolta in questo faccio fatica. Se penso a Ryan Giggs, mi chiedo da che pianeta provenga. O allo stesso Puyol, che affronta ogni partita come fosse una finale di Champions. A volte penso: “Rilassati amico, rilassati”».

https://www.youtube.com/watch?v=s_hN-HkoBf0

Un'altra immagine eloquente del trasporto di Puyol: contro il Real Piqué viene colpito da un accendino. Carles lo blocca poco prima che lo porga all'arbitro, sembra dirgli di non concentrarsi su alibi o mezzucci, di giocare e basta.

A Sudafrica 2010, il ritiro della Spagna era in piena campagna Afrikaner, il cuore rugbistico del paese. Lo staff della comunicazione FIFA ebbe l’idea di scherzare un po’ con un pallone da rugby e Puyol fu ospite di un improvvisato studio televisivo nel campus della North Western University. Una volta spiegatogli il plot, Charly fu ben contento di partire da una ripresa ravvicinata, con un pallone da rugby tenuto sotto il mento e lui che recita: «Mi dicono che questo sia un paese di rugby. Be’ [pausa scenica ed espressione perplessa], io di rugby non so niente». Poi, lancia il pallone da rugby alla sua destra, fuori dell’inquadratura, e afferra un pallone da calcio, passatogli da dietro la telecamera, alla sua sinistra. «Ma so come si gioca a calcio». Era il nuovo Puyol.

Il lato inedito di Piqué, invece, è più oscuro. Una sera ha un alterco con l’agente della Guardia Urbana riguardante una multa rifilata al fratello, reo di aver parcheggiato sulla corsia degli autobus, di fronte alla discoteca Catwalk di Barcellona. «Siete una vergogna. Mi multate perché andate a percentuale e siete senza soldi. La multa – gettata a terra con disprezzo, ndr – la pagherà tuo padre», inveisce. Episodio chiuso con le pubbliche scuse, la rinuncia all’appello e 10.500 euro di sanzione.

C’è invece un altro lato, più nascosto e meno frivolo, del Piqué eterno bambinone, ripreso dagli assistenti di volo, che lancia una fialetta puzzolente nell’aereo diretto a Helsinki per l’amichevole che il Barça vinse 6-0 contro l’HNK nell’agosto 2014, e allo stadio concede il bis in zona mista.

E sempre a quel lato oscuro va ricondotto l’alterco con l’agente della Guardia Urbana per la multa al fratello, reo di aver parcheggiato sulla corsia degli autobus, di fronte alla discoteca Catwalk di Barcellona. «Siete una vergogna. Mi multate perché andate a percentuale e siete senza soldi. La multa – gettata a terra con disprezzo, ndr – la pagherà tu padre»). Episodio chiuso con le pubbliche scuse, la rinuncia all’appello e 10.500 euro di sanzione.

Ibidem il rosso, condito dal classico insulto al guardalinee («Me cago en tu puta madre») nel retour-match di Supercoppa spagnola contro l’Athletic Bilbao del 17 agosto 2015.

Una delle immagini-cult di Wembley 2011 è Piqué che, alla moda del basket USA, taglia l’intera rete di una porta e se la mette al collo come souvenir.

https://www.youtube.com/watch?v=chf8GFb1DSY

Ma in pochi conoscono i retroscena di quel concitato post-finale mondiale. Finito il giro di campo con il trofeo, in spogliatoio succede il finimondo. La regina Sofia, Rafa Nadal e Placido Domingo ballano e cantano con i giocatori. All’improvviso, tra lo spogliatoio e l’inizio del tunnel, spunta Piqué che tiene in una mano una bottiglia di birra e nell’altra un paio di forbicine, di quelle usate dai massaggiatori per il bendaggio. Piqué fa avanti indietro e tutto trafelato continua a chiedere con insistenza dove sia finita la “sua” rete. Nessuno dello staff sembra interessarsene troppo, allora un volontario guida lui e Hunter – lì come inviato FIFA – nei meandri dello stadio, con Geri che inizia a spazientirsi. Alla fine, davanti a un addetto che le aveva nascoste al sicuro, Piqué smette di sbraitare in inglese e al giornalista-complice sussurra in spagnolo: «Mentre io lo prendo a pugni, tu prendi le reti e scappiamo via di corsa». Scherzava, ma non troppo. E così, grazie a un addetto tifoso della Spagna, oltre che alla connivente e convincente mediazione di grossi sponsor, Piqué aveva potuto portarsi via il suo bel ricordo mundial.

Non tutti però capiscono o apprezzano la verve istrionica di Piqué, fischiato e insultato in ogni stadio di Spagna eccetto il Camp Nou.

Il gioco che viene più semplice fare è di tipo linguistico visto che pique in spagnolo sta per astio, risentimento; e in inglese irritazione, stizza.

https://www.youtube.com/watch?v=ieJwdREBvUk

L'origine della versione antipatica di Piqué.

Durante i festeggiamenti della Champions 2015 Piqué prese il microfono e arringò il popolo blaugrana fresco di triplete ringraziando «Kevin Roldán perché è iniziato tutto con te». Roldán è il cantante colombiano di reguetón, amico di Cristiano Ronaldo, che mise in rete il video del suo duetto con CR7 alla festa per il 30esimo compleanno del portoghese, il 7 febbraio. La sera del 4-0 subìto nel derby con l’Atlético che spianò al Barça la strada per il titolo.

Un'uscita mai completamente assimilata e digerita, specie dai suoi avversari del Real.
Mesi dopo, Sergio Ramos entrò duro: «Da capitano della Selección pretendo rispetto per il Real Madrid e per noi giocatori. Piqué ha ottimi esempi in Xavi, Puyol e Casillas per evitare certe stupidaggini».

E se è vero che Xavi per quella panchina ha un futuro scritto, Piqué – nonostante gli incidenti diplomatici – ha nel dna forse quello di presidente del club.

https://www.youtube.com/watch?v=z2EItFyi_do

Non si riuscirà mai a scindere completamente le inimicizie della vita da club con l'unitarietà che richiede vestire la maglia della Nazionale.

Anche con Álvaro Arbeloa, altro merengue compagno di reparto in nazionale, non sono mancate le piques. In allenamento con La Roja nel 2013 (https://www.youtube.com/watch?v=LU8y9vgaFpA) e sui social. «Lo vedrei bene nel club de la comedia. L’ultimo decennio del Barcellona non può eguagliare la storia del Madrid», ha dichiarato Arbeloa. Di culto la risposta di Piqué (https://www.youtube.com/watch?v=XUdRrvqJZ2o): «Arbeloa dice che è mio amico? No, è solo un cono… cido». Anche qua l'interpretazione linguistica è un po' forzata: conocido significa conoscente, mentre coño è una malaparola abbastanza gretta. Ma volendo rimanere nel campo delle congetture si potrebbe provare a immaginare che l'insulto sia più sottile. In spagnolo “ser un cono” indica lo stare fermi: come i coni arancioni dei lavori stradali. Da un collega difensore, certo non un complimento.

https://twitter.com/eGranero11/status/675767079149113346

Anche Granero, con Piqué, non la tocca proprio pianissimo.

Per un cuore blaugrana che da piccolo s’ispirava al mito merengue Fernando Hierro, perfetta la par condicio madrilena. Il 6 febbraio 2016, contro l’Eibar, Fernando Torres ha segnato il suo 100esimo gol in maglia Atlético. Traguardo a lungo inseguito, e arrivato, sembra, grazie al vecchio rito dell’hamburger-talismano del giovedì con Antonio Sanz, direttore della comunicazione colchonera. Rivelato a Deportes Cope dal cameriere a Javier Gómez Matallanas, il giornalista forse più vicino all’ex Niño, l’aneddoto ha stuzzicato Piqué, che ha twittato: «Era una natruscat. Manca solo che ci dicano il tatuatore, il parrucchiere e il tassista che al Calderón l’hanno accompagnato».

http://www.sportyou.es/noticias/pique-cope-hamburguesa-torres-602897

Alla Strana Coppia l’avrete capito, piace ridere e scherzare. Specie insieme.

A Piqué e Puyol, insomma, piace scherzare. Non sempre con misura, forse, ma fa parte del gioco delle personalità.

Gli scherzi migliori, alla fine della fiera, sono sempre quelli che si fanno in campo. Tipo il 2 maggio 2009, al Bernabéu: El Gran Capità mette la freccia, el Presidente gioca la palla del game, set, match.

Per una volta, il loro modo meno diverso di essere culé.


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