Chapman: "Sognavo un mondo più giusto ma la strada è lunga"


L’artista riflette sui suoi testi, sempre attuali, in occasione della ristampa in vinile del primo album del 1988 da 20 milioni di copie 

A 16 anni credevo che educazione e rivoluzione ci avrebbero portati lontano: sì, ma era solo una parte del tutto

Avevo appena finito il college, non mi spiego come sono capitata al concerto per Mandela. Mai a mio agio con la fama

Non pensavo che le mie canzoni sarebbero state ancora valide. Oggi sono un inno alla vigilanza dei nostri diritti.

di PATRIZIO RUVIGLIONI 
La Repubblica - Lunedì 7 Aprile 2025
Pagina 32

ROMA - Non è sui social, negli Stati Uniti vive come una qualsiasi cittadina, A 61 anni, Tracy Chapman è ancora la ragazza timida che nel 1988 conquistò il mondo con solo una chitarra in mano, dopo il Concerto per Mandela a Wembley. Brani spogli e potenti — Talkin’bout a Revolution, Baby Can I Hold You, Fast Car — componevano il suo primo album, Tracy Chapman, venti milioni di copie, appena ristampato in vinile.

Canzoni che raccontavano povertà, razzismo, marginalità, cantate da un’artista afroamericana, dichiaratamente lesbica, femminista. L’ultima voce, autentica, della canzone folk e di protesta americana. «E purtroppo è attuale», dice oggi.

È paradossale, non crede?

«Molto. Da cantautrice sentire che ciò che hai scritto è "attuale" è un complimento. Ma come essere umano sono delusa. Sognavo più giustizia, meno discriminazione. Sognavo, da donna, di girare per le strade serena. Ma i fantasmi sono ancora qui».

Chi era nel 1988?

«Una ragazza che aveva appena finito il college, laureata in antropologia. Suonavo nei pub, la musica era tutto fin da bambina. Mamma, in casa, cantava sempre, mi aveva regalato un ukulele con cui, a otto anni, ho composto le prime canzoni».

La sua fortuna?

«Essere notata dalle persone giuste. Discografici e produttori che hanno arricchito le mie canzoni, per lo più acustiche, senza snaturarle. E che non hanno provato a cambiarmi. Poi, certo, fu difficile: il concerto per Mandela realizzò un sogno, ma mi spinse molto in là. Ancora non me lo spiego».

Come è nata "Fast Car"?

«Di notte, nella mia stanza. Ci ho messo una settimana».

Il suo album fu il più venduto del 1988 anche in Italia.

«Ne sono onorata. Ho ricordi confusi, all’improvviso io, figlia di una comunità operaia dell’Ohio, giravo il mondo. Dell’Italia mi ha colpito il calore del pubblico. Erano anni di scoperta del mondo, ci ho ripensato quando ho ripreso in mano queste canzoni».

Non ha voglia di un nuovo tour?

«Non pubblico un album d’inediti dal 2008, qualora ne nascesse uno sì. Ma non è nei piani. E la vivo serenamente, anche se non sono mai a mio agio con la fama».

All’epoca era più arrabbiata o speranzosa?

«Entrambe. È un retaggio del luogo da cui vengo, lì all’ottimismo si sommano rabbia e stanchezza. E poi queste canzoni hanno uno spirito adolescenziale, pensano di poter dare forma al mondo. Talkin’bout a Revolution è nata che avevo 16 anni: ero certa che con un po’ di coscienza collettiva presto non sarebbero più servite marce per i diritti civili. Erano canzoni ambiziose».

Oggi, pensa ancora che la musica possa cambiare il mondo?

«Può ispirare cambiamenti, che dipendono dalle persone. E renderle migliori. Per me è un vascello per portare messaggi. E un connettore: ai concerti gente d’estrazione sociale diversa convive in armonia, è prezioso. Poi sono un’ottimista, anche se non conosco le nuove generazioni. Ma studio. M’ispira la vita di Fannie Lou Hamer, un’attivista che negli anni Sessanta si è battuta perché i neri del Mississippi potessero votare. È merito di persone così se godo di una situazione migliore. Veniamo da un mondo orribile, lottando è migliorato. Non smettiamo».

Che America vede?

«Un Paese in cui, nonostante tutto, la maggior parte della gente è legata alla democrazia, e non si rivede in ciò che sta succedendo. È anche questione di sensibilità: sento parole d’odio, di violenza; la Costituzione fino a prova contraria consente a tutti di dire ciò che si vuole, ma mi piacerebbe che fosse chiaro un limite, per cui posso uscire di casa mantenendo una dignità».

Perché è tornata a rilasciare interviste?

«Perché c’è in ballo una ristampa, semplicemente».

Onesta.

«Da ragazza credevo che l’istruzione e la rivoluzione ci avrebbero portati lontani: avevo ragione, ma era solo una parte del tutto. Ero protesa al futuro, ora so che la lotta è un percorso in cui non ci si può adagiare mai. Abbiamo fatto tanto, e tanto rischiamo di perdere. Ci stanno attaccando, per andare avanti, dobbiamo difendere ciò che abbiamo conquistato. Nel 1988 non avrei mai pensato di dirlo. Ma non pensavo neanche che queste canzoni sarebbero state ancora attuali. Oggi sono un inno alla vigilanza dei nostri diritti».

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