HOOPS MEMORIES - Billy “The Hill” McGill, giù dalla collina


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di CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©

Nella primavera del 1962, chiusa sul 18-62 la loro prima stagione NBA, gli Chicago Zephyrs avevano la prima scelta al draft. Fra le stelle del college disponibili c’erano i futuri fuoriclasse nei pro Zelmo Beaty, Dave DeBusschere e John Havlicek. Ma con la primissima pick, il coach di Chicago Jack McMahon selezionò Billy “the Hill” McGill.

Centro di 2.04 uscito da Utah, McGill era stato capocannoniere a 38.8 punti di media, all’epoca la seconda di sempre a livello universitario. Cresciuto in un ghetto di Los Angeles, “Bill the Hill” – soprannome affibbiatogli in decima classe da un giornalista che vide una montagna di 2.02 sferrare conclusioni virtualmente inarrestabili, perché eseguite sopra la testa degli avversari – trascinò la Jefferson High School al titolo cittadino in tre dei suoi quattro anni di varsity.

McGill aveva un gancio in sospensione davvero eccezionale che faceva esplodere dalla linea di fondo e con la schiena rivolta verso il canestro, una sorta di antesignano dello sky-hook, il celeberrimo “gancio cielo” di Kareem Abdul-Jabbar. A Utah gli fu insegnato a tirare il più possibile, una tattica che dava i suoi frutti. Da junior, Billy guidò i suoi alle Final Four del Torneo NCAA.

Ma nei pro' la musica sarebbe stata diversa perché non avrebbe più potuto prendersi lui tutti i tiri della squadra.

McGill era così abituato a tirare (e a segnare) da pretendere, almeno inizialmente, che gli Zephyrs lo pagassero a punti. Alla fine lo persuasero ad accettare un normale stipendio, il che probabilmente gli evitò di finire sul lastrico.

Gli Zephyrs avevano già un grande centro realizzatore in Walt Bellamy, vicecapocannoniere l’anno prima alle spalle dell’imprendibile Wilt Chamberlain, ed ovviamente era lui ad ottenere la gran parte del minutaggio e il maggior numero di conclusioni.

Come rincalzo di Bellamy, McGill giocò meno di dieci minuti per gara e pur tirando con un ottimo 51.3% dal campo segnò appena 7.4 punti ad incontro. Disorientato dal nuovo ruolo Billy, timido e insicuro, si fece totalmente umbratile.

L’anno successivo, fu ceduto ai Knicks con i quali cominciò a dare i primi segni di risveglio tecnico, segnando una media di 15 punti in quasi venticinque minuti di gioco. Ma poi i Knicks scelsero al draft il futuro All-Star Willis Reed e così McGill fu spedito a St. Louis in cambio di una misera seconda scelta e di contanti.

Quella seconda cessione distrusse l’autostima cestistica di “Billy the Hill” che agli Hawks giocò poco e male: neanche un mese di stagione e fu tagliato. Dopo una rapida discesa agli inferi del basket pro (leggi Continental League) l’occasione del riscatto. A stagione inoltrata lo ingaggiò Los Angeles, una trade che lì per gli non gli parve vera: poteva finalmente tornarsene a casa. Ma di certo non immaginava di farlo in senso così letterale. 

Seguendo una alquanto singolare politica del risparmio i Lakers non lo portavano in trasferta, preferendo lasciarlo a casa a lavorare sul tiro (sic). Purtroppo, però, erano altre le doti che gli facevano difetto: la difesa, il saper andare a rimbalzo e il passaggio; doti mai sviluppate a Utah dove segnare era tutto ciò che gli veniva richiesto.

Nei playoff McGill fu aggregato alla comitiva gialloviola anche fuori casa, ma raramente mise piede sul parquet lungo il cammino verso le finali che i Lakers persero per mano di Boston. L’anno seguente, sostenne un provino per i Warriors, ma non riuscì a “fare” la squadra. McGill tornò a galla nel 1968 nella ABA, dove ebbe il suo breve canto del cigno (si fa per dire): due stagioni da 10 punti di media prima di chiamarsi fuori all’età di trent’anni.

La carriera NBA di “Billy the Hill” durò in tutto appena 159 gare, prova lampante di come a certi livelli occorra qualcosa in più che un buon tiro. Altrimenti il basket pro' diventa una vetta troppo alta da scalare.

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