HOOPS MEMORIES - "Big" Wilt ha detto stop



di CHRISTIAN GIORDANO © - Rainbow Sports Books ©

L’arrivo di Wilt Chamberlain nella NBA, nel 1959, era un evento annunciato sin dal suo secondo anno di high school alla Overbrook HS di Philadelphia.

Durante i tre anni a Kansas, era cresciuto fino a 2.14 e in più si era costruito una solidissima reputazione di potenziale superstar che sarebbe sicuramente esplosa nei pro. Wilt però sorprese tutti. Anziché tornare a Kansas per il suo anno da senior, Chamberlain giocò per un anno negli Harlem Globetrotters e là affinò sia il ballhandling sia il tiro. 

Ma c’erano pochi dubbi sulla squadra per la quale avrebbe giocato nella NBA. Il proprietario dei Philadelphia Warriors, Eddie Gottlieb, aveva convinto la lega ad espandergli il raggio della cosiddetta territorial draft pick, la scelta con la quale, per motivi di cassetta, le franchigie potevano reclutare i migliori talenti delle università limitrofe. Nel caso di Chamberlain, Gottlieb ottenne quindi un’estensione temporale prima ancora che geografica, dato che essa scattò quando Wilt ancora era al liceo. 

L’idea di Gottlieb era di farlo giocare il più possibile, e di fare sì che Wilt avesse ogni opportunità per segnare. Dopotutto lo pagava una cifra (allora riportata) di 65 mila dollari, sin lì il più alto salario nella storia della NBA, e il raggiungere record su record avrebbe abbondantemente ripagato al box office.

Nessuno però poteva sapere, né prevedere, che a Wilt non sarebbe stato permesso di fare ciò che gli veniva richiesto. Nella sua prima stagione da pro', stabilì un record NBA segnando 37.6 punti a partita. Giocò oltre quarantasei minuti di media e guidò la lega nei rimbalzi. E non si limitò a vincere il Premio di Rookie of the Year, conquistò anche quello di MVP.

Le prodezze di Wilt guidarono i Warriors ad un record di 49-26 e al secondo posto finale a Est in regular season prima di perdere con i Celtics nel secondo turno dei playoff.

Chamberlain non era felice. Per l’intera stagione aveva subito una vera e propria “punizione” fisica dagli avversari, che in tutti i modi – leciti e non – cercavano di tenerlo lontano dal canestro. I centri avversari capirono immediatamente che il miglior modo di contenere Wilt era fargli fallo. Siccome era un mediocre tiratore di liberi, il 58% dalla lunetta parlava da solo, la scelta più ovvia era di fargli fallo deliberatamente ed erano falli pesanti.

In una partita, Wilt stava cercando di spostare via da sotto canestro il centro degli Hawks, Clyde Lovellette, una montagna d’uomo di 2.02 per 107 kg. Nel duello Lovellette era in difetto di venti-venticinque chili e in uno scontro saltò con un gomito tenuto malignamente largo che a Wilt fece saltare quattro denti davanti.

Quell’incidente e la lunga stagione di “maltrattamenti” fisici subiti erano un dazio troppo alto da pagare, anche per Chamberlain. Subito dopo l’ultima partita di playoff dei Warriors contro i Celtics, Wilt annunciò di averne avuto abbastanza. Pur avendo battuto il record di segnature della Lega e dimostrato il proprio valore con la più grande stagione individuale nella storia della NBA, considerava il basket pro troppo violento e poco gratificante. Voleva essere un uomo d’affari di successo, apprezzato anche per la sua intelligenza e non solo per lo strapotere fisico. 

Ma in pochi presero sul serio quel ritiro troppo prematuro per essere credibile. Per fortuna sua e di tutti gli amanti della pallacanestro cambiò idea in tempo per la stagione successiva: la lunga, insuperabile carriera di Wilt Chamberlain era appena cominciata.

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