HOOPS MEMORIES - Clifton, Cooper e Loyd: i Jackie Robinson della NBA


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di CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©

Il Jackie Robinson della NBA? Uno e trino, stessa stagione di grazia: 1950-51. 

Earl Big Cat Loyd, primo afroamericano a scendere in campo: con i Washington Capitols, il 31 ottobre a Rochester contro i Royals, vittoriosi 78-70.

Nathaniel Sweetwater Clifton, il primo a firmare un contratto: dagli Harlem Globetrotters ai New York Knicks per 25.000 dollari.

Charlie Chuck Cooper, il primo a essere scelto al Draft: il 25 aprile, al secondo giro, 13ª pick, da Duquesne ai Boston Celtics.

Con Robinson in Major League, nel 1947, nel baseball si era compiuto uno storico passo verso l’abbattimento delle barriere razziali. Nel basket, però, anche il solo potenziale impiego di un afroamericano non arrivò che alla fine degli anni 40, grazie agli Harlem Globetrotters. 

Ironia della Storia, con la maiuscola, secondo alcuni era stato il padre-padrone dei ’Trotters, l’ebreo bianco Abe Saperstein, uno dei maggiori responsabili dell’ostracismo ai giocatori neri nella NBA. Accusato di proteggere il proprio monopolio sui campioni neri, Saperstein minacciò di non portare più i Globetrotters nelle arene NBA – nelle quali si esibivano nel sotto-clou prepartita –, qualora la lega, votando sì all’integrazione, avesse aperto le porte agli atleti di pelle nera. Quello di Saperstein era un autentico boicottaggio, per non scrivere ricatto, perché così facendo avrebbe negato alle franchigie le (parecchie) migliaia di dollari in più che incassavano al botteghino quando in cartellone c’erano i suoi giocolieri. 

Nella storia del basket professionistico, gli afroamericani hanno giocato un ruolo preminente, alla pari se non maggiore di quello avuto negli USA dagli altri sport principali. 

Per metà del secolo scorso, la pallacanestro non ebbe campionati professionistici nazionali, quindi il fatto che i circuiti esistenti fossero di soli bianchi non aveva prodotto grosse conseguenze. A parte il non trascurabile dettaglio che, per riuscire a campare, le migliori squadre non bianche erano costrette a viaggiare di città in città alla ricerca di avversari e, soprattutto, d’ingaggi.

È il caso, per esempio, dei New York Renaissance Big Five, una delle migliori squadre di quell’èra itinerante, durata dagli anni Venti ai Quaranta, o degli stessi Harlem Globetrotters.

Tra gli anni Trenta e Quaranta la lega pro’ più importante era, infatti, la National Basketball League, che aveva base nel Midwest e nei roster, specie durante la Seconda guerra mondiale, avrebbe poi integrato non pochi giocatori neri. 

Nella stagione 1946-47 – quando nacque la Basketball Association of America, lega antesignana della NBA – Dolly King giocava nei Rochester Royals e William Pop Gates nei Tri-Cities Blackhawks della NBL. Eccezioni, appunto.

L’epoca delle pari opportunità arrivò – finalmente – nel 1950, in vista della quinta stagione, quando al Draft il proprietario dei Boston Celtics, Walter Brown, impiegò la propria seconda scelta per selezionare Charlie Chuck Cooper, ala/centro di 1.94 da Duquesne University e solo omonimo del Charles, stella dei Rens detta Tarzan per via della sua straordinaria forza fisica.

Quando Chuck era matricola la University of Tennessee si era rifiutata di affrontare Duquesne perché questa non garantì che Cooper non avrebbe giocato. Un mese dopo, la University of Miami aveva cancellato la gara contro Duquesne in programma all’Orange Bowl, attaccandosi alla antiquata ordinanza cittadina che proibiva a neri e bianchi di giocare nella stessa partita.



In alcuni college quel tipo di discriminazione razziale continuò a lungo anche dopo che la NBA era diventata, perlomeno ufficialmente, una lega integrata. 

Una riprova? Nel 1962 Mississippi State, campione della Southern Conference, respinse l’invito di partecipare al Torneo NCAA: non intendeva affrontare squadre comprendenti giocatori neri.

E nella NBA, i proprietari continuavano a guardarsi bene dal firmare atleti neri. Fino a tutti gli anni Cinquanta vigeva la regola non scritta che i club dovessero limitarsi ad avere in rosa tre giocatori neri, poi cresciuti a cinque dai primi anni Sessanta. 

Che esistessero o no questi taciti accordi, i primi tre neri della NBA seppero però farsi onore. Il dado era tratto. La chiamata di Cooper aprì la via agli altri proprietari, che poterono così porre fine alla segregazione, perlomeno nelle loro squadre. Al nono giro, i Washington Capitols scelsero Earl Lloyd da West Virginia State. Subito dopo, i New York Knicks rilevarono dagli Harlem Globetrotters il contratto di Nate Clifton, un fuoriclasse.

Secondo la leggenda, a un meeting fra proprietari NBA tenutosi a Chicago il 25 aprile 1950, Brown scelse Cooper al secondo giro. E subito uno degli altri owners NBA gli chiese: «Walter, ma non sai che è negro (testuale, nda)?». «Non me ne frega niente – la risposta – se è a strisce, a quadretti o a pois! Boston prende Chuck Cooper di Duquesne!».

Il primo afroamericano in campo in una partita NBA fu però Lloyd, che giocò l’unica gara in programma nella serata di apertura della stagione. A vincerla furono i Royals futuri campioni, Washington invece sarà smantellata a metà stagione. 

Big Cat, centro di 1,97, se ne andò prima: disputò sette partite, poi partì militare nell’esercito. Terminata la leva nel 1952, giocò nove stagioni ai Syracuse Nationals, terminate con 8.4 punti e 6.4 rimbalzi di media e il titolo, vinto da titolare, del 1955. Dei tre pioneri (senza la “i” mediana) fu l’unico a conquistare l’anello di campione. Nominato allenatore dei Detroit Pistons, nel 1972 divenne il primo coach nero licenziato da una squadra NBA. Ironia della sorte, il suo successore, Ray Scott, fu il primo allenatore nero a subentrare a un collega.

Del trio, la miglior carriera è toccata a Clifton, che nella NBA restò per 8 stagioni (7 ai Knicks), chiuse a 10 punti e 8.2 rimbalzi per gara. Giocò poi con gli Harlem Magicians, cestisti-clown simil-Globetrotters. Centro di due metri, all’All-Star Game del 1957 segnò 8 punti e prese 11 rimbalzi utili alla vittoria per 109-97 della selezione East. 

Il primo afroamericano a disputare la Partita delle stelle fu però Ray Felix, pivottone di 2.09 che giocò da rookie, a Baltimore, l’edizione del 1954, vinta anch’essa (98-93) dagli orientali. 

Al primo anno in NBA, Cooper viaggiò a 9 punti a partita poi vivacchiò per altre 5 stagioni (4 a Boston) ma senza più eguagliare quella produzione offensiva: 6.7 punti e 5.9 rimbalzi le sue medie in carriera.

Forse è lui comunque il più credibile Jackie Robinson del basket, per i ben noti pregiudizi incontrati al college e, a maggior ragione, perché l’essere stato scelto dai Celtics era paragonabile al colpo messo a segno con Robinson, nel baseball, dagli allora Brooklyn Dodgers. Una mossa che aveva fatto del boss di Boston, Brown, il Branch Rickey della NBA.


Clifton non vinse il titolo né allenò nella NBA, ma dei tre è quello che più viene ricordato. Detto Sweetwater per la spiccata predilezione per bibite zuccherate come Coca Cola e 7-Up, quando entrò nella lega era già una stella. 

Nel 1950, approdò 28enne ai Knicks da capocannoniere dei Trotters. E ai tempi, sulla sua cessione, lo stesso Nat rivelò poi un retroscena. Meditava già di andarsene e Saperstein, col quale aveva in corso una vertenza economica, quando lo scoprì decise di cederne il contratto.

Spacciato per 1,99 ma più vicino all’1,94, a rimbalzo sapeva cavarsela anche contro gente più alta e più grossa. Passatore sublime, fu decisivo nel trascinare i Knicks subito in finale. Nella NBA non tirava molto, si concentrava di più su difesa e rimbalzi, ma viaggiò lo stesso a dieci punti per gara nelle sue sette stagioni nei pro’.

A 35 anni lasciò la lega per gli Harlem Magicians, fondati dagli ex Globetrotters Reece Goose Tatum e Marques Haynes. Lì se la spassò per quattro anni prima che un ginocchio malconcio lo costringesse al ritiro. Poi tornò nella natia Chicago, con la vita piena di ricordi non sempre dolci. Quelli di un pioniere – nero – fra pionieri. Dei tre Jackie Robinson della NBA il più vicino all’originale.

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