HOOPS MEMORIES - Il Mago al centro del palcoscenico
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16 maggio 1980, Gara6, Finali NBA: Sixers-Lakers 107-123
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©
La finale NBA del 1980 è stata un’epica battaglia tra i Los Angeles Lakers, guidati dall’MVP della Lega Kareem Abdul-Jabbar e dalla matricola rivelazione Earvin “Magic” Johnson, e i Philadelphia 76ers di Julius “Dr. J” Erving.
Da quando nel 1976-77 il Doctor era arrivato a Philadelphia i Sixers erano stati gli eterni overdog della NBA, ma non raggiungevano le finali da tre anni addietro, l’ultima era stata la batosta con Portland, ed erano bramosi di vincere un campionato.
Allo stesso modo Jabbar non giocava più per il titolo dal 1974 e non ne aveva più vinto uno dal 1971, quando era ancora il leader dei Milwaukee Bucks, quindi anche lui in quanto a fame non scherzava. Magic, al contrario, pareva vivere una favola: era al primo anno nella NBA e giocava subito per l’anello; e l’anno precedente, da sophomore, aveva guidato Michigan State al titolo NCAA. Che si poteva volere di più?
Quando i Lakers si assicurarono i diritti per la prima pick del draft Magic aveva appena deciso di entrare nei ranghi professionistici e un anno dopo, il giovane virgulto si godeva la sua ottima stagione da rookie da 18 punti, 7 assist e 7 rimbalzi a partita. I Lakers infierirono su Phoenix e su Seattle, entrambe eliminate in cinque gare.
Quella di Los Angeles era ancora la squadra di Kareem, ma prima della serie finale il vento stava cambiando. E anche la stampa aveva incominciato a fiutarlo, attribuendo i positivi cambiamenti avvenuti nei gialloviola, e in Kareem stesso, alla trascinante presenza di Magic in quintetto.
I Lakers vinsero in casa Gara Uno ma Philly pareggiò il conto nella seconda partita. Los Angeles si prese Gara Tre e i Sixers rimisero a posto le cose in Gara Quattro. La serie si dirigeva ancora verso ovest all’insegna dell’incertezza.
Gara Cinque fu assai tirata fino al terzo quarto, quando Jabbar ricadendo male dopo un layup sentì una fitta alla caviglia sinistra. Un mesto Kareem si avviò zoppicante verso la panchina mentre il pubblico del Forum si ammutoliva. Il numero 33 si era letteralmente caricato sulle spalle i compagni per tutta la serie, e ora più che mai dipendevano di lui. Il medico sociale intuì che poteva trattarsi di una frattura e lo fece uscire dal campo per applicargli una fasciatura rigida. Il dolore era intenso, ma il capitano strinse i denti e cercando di limitare i propri movimenti trovò lo stesso il modo di essere efficace.
Nel quarto periodo segnò altri 14 punti per un game-high di 40, e i Lakers vinsero di 5. Los Angeles era avanti 3 a 2. Gara Sei era in programma a Philadelphia ma l’infortunato Jabbar non sarebbe stato della partita, anzi, non era nemmeno in grado di mettersi viaggio. Le lastre evidenziarono una brutta distorsione e così si decise di non rischiarlo per non comprometterne le chance di recupero in vista della (a quel punto probabile) eventuale Gara Sette, di nuovo al Forum.
Ma in Gara Sei, senza Kareem e per di più a Philadelphia, in pochi davano ai Lakers grandi chance di farcela. Sull’aereo per Philly, il coach dei Lakers Paul Westhead chiese a Magic se questi se la sentiva di iniziare al centro. A Magic l’idea non dispiaceva per niente: “Mi piacerebbe. Ci ho giocato qualche volta al liceo”, il che, per inciso, risaliva ad appena tre anni prima. Westhead era convinto che con quella stazza (2.04 per 115 kg) Magic potesse dire la sua anche vicino a canestro. L’ala grande dei Lakers Jim Chones sarebbe andato su Darryl Dawkins, mentre Magic avrebbe dovuto vedersela con il 2.09 Caldwell Jones.
Tutta Philadelphia era pronta per quella che gli americani definiscono una cakewalk, una passeggiata, ma Magic aveva altre idee. Earvin saltò al centro contro Jones per la palla a due iniziale e la perse. Ma i Lakers partirono a tutta allungando subito sul 7-0. I Sixers rimontarono fino al +8 del secondo quarto. Magic però, soprattutto da fuori, era on fire, infuocatissimo. Jones si trovava a disagio lontano da canestro e più continuava a concedere tiri a Earvin, più questi non la smetteva di segnare. All'intervallo la partita era incagliata sul 60-pari. Ma quel temporaneo pareggio era in realtà un enorme vantaggio psicologico per i Lakers, che con quel loro quintetto più basso ma molto più rapido e veloce, avevano disorientato i Sixers.
Phila era abituata ad afrontare i Lakers "di Kareem", che con la sua presenza in post basso ancorava l'attacco gialloviola a metà campo nell'attesa di potergli dare palla nel mezzo. Senza di lui, i Lakers facevano invece girare il pallone, chiamando i lunghi lontano dal canestro e scambiandosi spesso le posizioni. I Sixers non riuscirono a risolvere nell'intervallo il complicatissimo rebus, e i Lakers andarono in fugacon un parziale di 14-0 in avvio di secondo tempo. Dr J e compagni ridussero lo scarto a -10 a fine terzo quarto, e negli ultimi 12' inflissero ai Lakers una serie di pesantissimi break. Julius Erving innescò per tre volte la rimonta dei Sixers, che si riportarono sotto fino al -2, ma ogni volta, con Magic a premere sull'acceleratore, i Lakers riscappavano via. Alla fine Los Angeles vinse 123-107.
Magic non aveva fatto tutto da solo - Jamaal Wilkes fu altretanto letale da fuori, con un high di 37 punti mai più toccato dai tempi della high school - ma c'erano pochi dubbi che quella era stata la sua serata.
I media giocarono con i titoli alludendo al fatto che Magic aveva giocato da centro «in Lew of Alcindor» (in inglese "in lieu of", ma la pronuncia è simile), in luogo di Alcindor, il vecchio nome di Jabbar prima che si convertisse all'islam.
Johnson aveva chiuso la partita della vita con 42 punti, 14 su 23 al tito e un intonso 14/14 dalla lunetta, più 15 rimbalzi, 7 assist e 3 recuperi. Già prima dell'incontro Magic trasudava fiducia. Sull'aereo per Phila si era seduto in quello che di solito era il posto riservato a capitan Kareem e ai preoccupati compagni aveva rivolto qualcosa di più che un incoraggiamento in rima baciata: «Don't be fear, the thirty-two is here». Niente paura, c'è qui il trentadue. Come sorprendersi se poi nel dopogara Lionel Hollins, guardia dei Sixers, scuoteva la testa senza aggiungere altro che «Magic: di nome e di fatto». Prosit.
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