HOOPS MEMORIES - Arbitri dell'altrui destino


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di CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©

Non ci sono dubbi sul fatto che anche nel basket il compito più ingrato appartenga agli arbitri. I tifosi li bistrattano, gli allenatori gli urlano contro con quanto fiato hanno in corpo, e alle loro decisioni i giocatori reagiscono, nel migliore dei casi, con sguardi ostili. Eppure, gli arbitri di oggi possono ritenersi molto fortunati rispetto al passato. Nel primo anno della NBA, la stagione 1949-50, venivano spesso criticati pubblicamente dagli allenatori, dai proprietari e talvolta anche dai giocatori. Questa poco simpatica consuetudine continuò fino a che Ben Kerner, il proprietario degli St. Louis Hawks, cercò di convincere i colleghi che la loro messa al bando dei direttori di gara era alla fin fine assai controproducente.

Per usare le sue stesse parole, “criticare i giudici di gara è come avere il più caro ristorante della città e poi mettersi sul marciapiede di fronte a urlare: ‘Il mio cuoco fa schifo!’”. Un’operazione di marketing francamente rivedibile.

Il resto dei proprietari NBA colse al volo il senso del ragionamento di Kerner e istituì multe fino a 1000 dollari per proprietari, allenatori e giocatori che in pubblico parlavano male degli arbitri. Sanzioni del genere continuano ad essere imposte anche nella NBA di oggi, solo che adesso la posta in gioco è almeno dieci volte più elevata.

Agli albori del basket, gli arbitri dovevano invece preoccuparsi più per la propria incolumità fisica che per gli abusi verbali. Attorno al giro di boa del secolo scorso, in campo c’era un arbitro soltanto e il suo primo interesse era giocoforza quello di restarsene alla larga, per la sua sicurezza. Ai tempi il gioco era durissimo, e al termine degli incontri la parte superiore della divisa ufficiale degli arbitri, una camicia bianca, finiva spesso per essere coperta di sangue. Talvolta anche il suo.

Non di rado capitava che anche gli spettatori partecipassero, con mozziconi di sigaretta e spilloni per cappelli, allo scambio di cortesie con i giocatori ospiti e gli arbitri. Per esempio, la cattiveria di alcuni abitanti delle cittadine minerarie della Pennsylvania era proverbiale. Dopo aver scavato nel carbone per tutto il giorno, i tifosi andavano alle partite muniti di chiodi da scaldare con le lampade da miniera per lanciarli contro l’arbitro e gli avversari in lunetta.

Per l’arbitro la parte più pericolosa della partita era comunque la palla a due al centro del campo, operazione che a quei tempi seguiva ogni canestro. I due centri che andavano a saltare collidevano di solito con impatti tremendi, e più di un arbitro si era infortunato piuttosto seriamente proprio per non essere riuscito a smammare in tempo.

Se una squadra riteneva che l’arbitro stesse favorendo l’altra lo faceva presente in un modo di cui era poi difficile non tenere conto. Come l’arbitro alzava la palla a due, due dei giocatori della squadra che si sentiva bistrattata si lanciavano da direzioni opposte per prendere nel mezzo l’arbitro. Avete capito bene: è quella l’etimologia del termine cestistico “the press”.

Come si può facilmente intuire, fin dagli esordi del basket i giocatori capirono subito che gli arbitri potevano influire pesantemente sull’esito della gara. E naturalmente si prodigarono nella ricerca di tutti i modi possibili per influenzarne la direzione di gara.

Nei lontani anni ’20 gli Original Celtics, formazione sempre all’avanguardia nella sperimentazione cestistica, se ne uscirono con una tecnica alquanto efficace. La prima volta che gli veniva fischiato un fallo contro, tutti e cinque i giocatori in campo “caricavano” l’arbitro contestando energicamente la chiamata. È chiaro che più di un arbitro ci avrebbe pensato due volte prima di fischiargli un altro fallo contro. Non è giusto, ma mettetevi nei panni del poveretto: cinque invasati grossi come armadi si lanciano contro di voi con fare minaccioso; voi che fate, vi portate il fischietto alla bocca? 

Non c’è dubbio che nella storia della NBA, come in quella degli sport di squadra in generale, ai giocatori d’élite viene riservato un trattamento di favore. Nel suo libro, Second Wind, Bill Russell ammise candidamente che anche i grandissimi Bob Pettit e Oscar Robertson rientravano in questa categoria. Secondo Russell, Pettit non sapeva palleggiare benissimo, soprattutto con la mano sinistra. Ma con lui gli arbitri qualche volta chiudevano un occhio sulle infrazioni di passi che commetteva prima di tirare, una “libertà” che gli consentiva di effettuare delle conclusioni che altrimenti non sarebbe stato in grado di prendersi. Una volta durante una gara Russell protestò perché Pettit aveva commesso “passi” senza che gli venisse fischiato nulla, ma l’arbitro rispose: “Forse avrà anche camminato, ma non è andato tanto lontano”. Così va il mondo, amici, anche sul parquet.

Altro esempio. Robertson, secondo Russell, era come un allenatore in campo che spesso, specie nel secondo tempo, arrivava ad assumere il completo controllo di un incontro. “The Big O” godeva ampiamente dei benefici di quello che Russell chiamava “il fallo libero” di Oscar, che con una mano palleggiava mentre con l’altro braccio teneva lontano l’uomo che lo stava marcando.

In qualche caso gli arbitri ci mettono un po’ per imparare a conoscere i movimenti dei giocatori. Quando Dave Cowens arrivò nella Lega aveva in continuazione problemi di falli tanto che nella sua stagione d’esordio uscì per raggiunto numero di infrazioni la bellezza di quindici volte. Ma un po’ alla volta gli arbitri gli presero gradatamente le misure e le sue uscite per falli finirono per essere dimezzate. Un’altra promettente matricola, Dave “Big Daddy” Lattin, non fu altrettanto fortunata. Dopo aver guidato Texas Western al titolo NCAA del 1967, Lattin cercò di portare il suo irruente stile di gioco anche ai San Francisco Warriors. Ma là ebbe di media un fallo ogni tre minuti e nel giro di due anni si ritrovò fuori della Lega.

La NBA moderna è ritornata al sistema dei tre arbitri, che di questo possono esserle grati. Come dovrebbero esserlo nei confronti del più noto dei loro predecessori, Pat Kennedy.

Primo arbitro di basket a godere di una certa notorietà, Kennedy lasciò la sua impronta negli anni ’30, quando il college basketball stava per approdare alla ribalta nazionale. È ormai acclarato che un arbitro è tanto più bravo quanto più la sua direzione di gara passa inosservata. Kennedy era tutto il contrario: dove gli altri direttori di gara cercavano di non attirare l’attenzione, Pat era plateale. Molti tifosi lo ritenevano un pazzo che urlava e sbraitava mentre fischiava le chiamate. E nemmeno i suoi fischi erano “normali”, visto che col fischietto emetteva un’ampia gamma di suoni: da quelli più lunghi e secchi emessi con quanto fiato aveva in gola fino a quelli più brevi che sussurrava quasi amorevolmente.

Kennedy però era un grande arbitro e il suo stile veniva non solo accettato ma addirittura imitato. La sua ampia gestualità si è infatti evoluta nel codice di segnali manuali oggi usati dagli arbitri per comunicare con il tavolo dei giudici di gara. E, cosa più importante, Kennedy era un uomo integerrimo che non si faceva intimidire. Se gli arbitri godono ancora di uno straccio di rispetto, una fetta, e grossa, la devono anche a lui.

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